“La morte e la fanciulla” di Polansky. La nullità della politica e il desiderio di giustizia antifascista

Creato il 22 aprile 2013 da Cremonademocratica @paolozignani

Una delle scelte politiche più interessanti dell’ultima settimana è stata compiuta da Cubovision, che trasmesso il film La morte e la fanciulla di Roman Polansky (1994), dedicato alla fase successiva alla caduta del regime fascista cattolico cileno o argentino. Il Paese non è precisato, la storia è di fantasia, e ha forza per mandare un messaggio.
Per la trama del film si può leggere
wikipedia.
La sceneggiatura sembra presa da un dramma teatrale. Tutto, tranne due scene, si svolge nella casa di una donna (Sigourney Weaver, in gran forma) vittima di torture e stupri da parte dei fascisti, ormai sposata con un avvocato di successo che è appena diventato presidente della commissione d’inchiesta sui crimini del “passato regime”, che la donna chiama “fascista”.
È interessante che la donna, ancora disturbata e fragile per le sofferenze patite, riesca con intuizione, arguzia, istinto vitale, a riconoscere il torturatore pur non avendo prove. Il marito di lei, tipo incolore, pronto a mediare, poco aggressivo, garantista, personificazione dello Stato di diritto, non capisce. Solo lentamente si avvicina a credere alla moglie – vivace, grintosa, sicura, capace di riconoscere da pochi dettagli una persona mai vista in faccia – e arriva a credere senza verificarlo al falso alibi del torturatore, interpretato da Ben Kingsley. Il quale alla fine confessa, smascherato dalla donna che demolisce anche il falso alibi del mostro.
Il marito politico e dipendente psicologicamente dallo Stato di diritto, dalla leggi, dalla pacificazione nazionale, è incapace di comprendere. La politica, in breve, non ha niente da dire ed è pronta a instaurare la solita democrazia gattopardesca.
La donna invece usa tutti i mezzi possibili, anche violenti, pur di giungere alla verità e alla giustizia. E strappa la confessione all’ultimo minuto. Il torturatore, oltretutto un medico, godeva nel torturare e stuprare, ne era felice.
La politica resta al di fuori, non comprende la vicenda umana, vuole solo trasmettere messaggi rassicuranti e soporiferi dopo un passaggio storico traumatico, disinteressandosi anche della verità.
L’intelligenza della vittima, una straordinaria Sigourney Weaver, è invece potenziata dal dolore e dal desiderio di giustizia, e fa ricorso a rutti gli strumenti possibili per rafforzare la conoscenza del torturatore e indurlo alla confessione liberatoria, che spiega la realtà, non la trasforma in un incidente di percorso da dimenticare. La necessità di ricevere giustizia, in un confine labile con la voglia di vendetta, scatena le passioni più potenti della vittima, che annienta intellettualmente l’avversario e lo conduce alla disperazione.
Risorse della vita, dell’animo umano, della sensibilità, dell’intelligenza in pieno fermento, mentre la politica dorme. Il marito è destinato a diventare ministro.
Una preziosa lezione di antifascismo, senza retorica, senza fandonie politiche e senza compromessi privi di umanità e serietà.

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