“Parto. Non dimenticherò né la via Toledo né tutti gli altri quartieri di Napoli; ai miei occhi è, senza nessun paragone, la città più bella dell’universo”. L’italiano medio, ossia quello passivo che non si avvicina a un testo scritto se non quando quest’ultimo tratti di gossip e porcherie varie, o a un film che richieda un impegno maggiore di quello richiesto per mettere le scarpe e via di seguito, penserà che la frase sopra virgolettata sia stata pronunciata da un emigrante, un morto di fame qualsiasi che lascia la sua casa portandosi dietro uno stereotipo, senza che possa essere neppure sfiorato dal pensiero che invece sia stato Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle, a scriverla, lasciando quella che era allora la capitale borbonica dello Stato più importante e ricco della penisola italica, la città che rivaleggiava con la capitale francese: “In Europa ci sono due capitali: Parigi e Napoli”. Era l’anno 1817.
Trenta anni prima il Gran Tour portò a Napoli anche Goethe, il quale allo stesso modo del collega francese usò parole estremamente positive per descrivere il suo soggiorno nella città di Partenope, e anzi, si può dire che il tedesco abbia vissuto un’esperienza quasi extrasensoriale: “Anche a me qui sembra di essere un altro. Dunque le cose sono due: o ero pazzo prima di giungere qui, oppure lo sono adesso”; ma anche “Da quanto si dica, si narri, o si dipinga, Napoli supera tutto: la riva, la baia, il golfo, il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i castelli, le passeggiate… Io scuso tutti coloro ai quali la vista di Napoli fa perdere i sensi!”. I suoi abitanti, lungi dal definirli “diavoli” come gli è attribuito, erano lodati dal poeta per la vivacità e per l’industriosità, l’intelligenza, abitanti che tra l’altro qualche decennio dopo, sotto la reggenza di Ferdinando II, avrebbero sperimentato la raccolta differenziata – quello che oggi nessuno riesce a fare, i Borbone lo avevano fatto oltre un secolo e mezzo fa, dimostrando una lungimiranza che abbraccia vari settori. I Borbone fecero costruire la prima ferrovia della penisola, portarono alla luce gli Scavi Archeologici di Pompei ed Ercolano attirando l’attenzione e lo stupore del pianeta, istituirono il primo museo al mondo (l’odierno Museo Archeologico nazionale) dove fu esposta anche la collezione Farnese che Ferdinando I donò al popolo del suo Regno, costruirono la Reggia di Caserta e chi più ne ha più ne metta. La storia ufficiale però, oggi, non parla di un Regno delle Due Sicilie florido e tecnologicamente e culturalmente all’avanguardia, bensì di uno Stato povero e arretrato. Perché?
Una Napoli come centro di fermento culturale e all’avanguardia non si è avuta soltanto coi Borbone: ad esempio, la prima Università statale del continente fu fondata nel 1224 a Napoli da Federico II, il quale estese la sua attenzione pure alla Scuola Medica Salernitana che viene fatta risalire al IX secolo, mentre nel ’300 vide regnare Giovanna I, una tra le prime donne a farlo per diritto proprio, ma i fasti di Napoli sono ben più risalenti. Era una tra le città più importanti della Magna Grecia, e sotto l’influenza ateniese qui si radicarono e svilupparono le tradizioni teatrale e musicale; accolse Virgilio che usò la sua influenza sull’imperatore Augusto per favorirla e il cui monumento funerario è visitabile ancora oggi, insieme alla tomba di Giacomo Leopardi; a Napoli i Romani organizzarono i giochi Isolimpici in quanto città più greca d’Italia e Nerone, abile musicista contrariamente a quanto viene detto di lui, andava ad esibirsi nel suo celebre teatro.
Il declino vero interessò Napoli, e insieme a lei il Meridione, con l’Unità. Aveva cessato il suo ruolo di capitale, Roma era troppo vicina e si doveva investire su questa per farne il centro dell’Italia, il porto di Salerno fu praticamente smontato e ricostruito a Genova, le officine di Pietrarsa furono fatte soccombere in favore dell’Ansaldo, vennero chiuse le scuole per 15 anni, il popolo del Sud per la prima volta (a differenza di quello Settentrionale) conobbe l’emigrazione, e così via: nacque la questione meridionale. Queste sono le parole Fëdor Michajlovič Dostoevskij sull’appena nato Regno d’Italia: “per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, […] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!”.
Nonostante la sua ridimensionata importanza e la cattiva fama, per molti versi immeritata ma prevedibile poiché bisognava delegittimare il passato di Napoli per annetterla al Regno dei Savoia, questa città resta sempre viva e in fermento, presentando quelle contraddizioni, quel “barocco totale” che la contraddistingue. I suoi abitanti continuano ad essere la linfa che scorre tra le sue vene-strade, ognuna delle quali ha un mistero; il suo conservatorio continua ad allietare chi passeggia attraverso di essa insieme ai musicisti di strada; gli street artists più famosi vengono a porre qualche rimedio all’inettitudine dei governanti trasformando il degrado in bellezza; il suo centro storico è il più vasto d’Europa e il più ricco di Chiese al mondo, ricche a loro volte di tesori; a Napoli si può vedere il tesoro più prezioso al mondo, quello di San Gennaro, e si possono visitare decine di musei e siti artistico-culturali e paesaggistici con pochissimi pari al mondo: è sufficiente abbandonare i preconcetti inculcati dal sistema e aprire i libri e le guide giusti. Napoli è ancora oggi la più viva d’Italia.