C’ERA UNA VOLTA IL LOCAL PUB, ORA C’È IL LOCAL PARK
C’era una volta l’oratorio: un campo asfaltato per giocare a pallone, qualche panca di pietra vicino alla cancellata d’ingresso, qualche suora e qualche prete. Una piccola zona di giochi per bambini nascosta in un cantuccio. Ma, soprattutto: chiacchiere. D’altronde si chiama “oratorio”.
Da cosa nasce cosa, e dopo i primi anni in cui quel cancello e quel campo asfaltato servono a passaggio obbligato verso la cappella, o verso le sale in cui è allestito il banchetto post Battesimo del figlio del cugino dell’amica di mamma, comincia a emergere il vero volto della location: l’aggregazione.
L’oratorio era un bel posto, fungeva a: ritrovare le amiche, farmene di nuove, perderne di vecchie (che mi han soffiato il ragazzo che lumavo), flirtare a più non posso, sfilare con l’ultima gonnellina a fiori che mi son comprata con la busta del compleanno che nonna Rachele mi ha consegnato, sfoggiare per la prima volta lo smalto sulle unghie, mostrare i miei primi orecchini col buco. Pendenti a dismisura e che mi glorio di far dondolare muovendo il capo ad ogni parola.
L’oratorio è stato (scuola a parte) il mio primo, vero luogo sociale.
Passata a miglior vita (nel senso genuino del termine), alla tendenza agnostica che spesso si sviluppa durante la crescita si accompagnò la scoperta di un nuovo, incantevole luogo, altrettanto seducente: la biblioteca.
Quella dell’università, ingegneri di tutte le taglie e parvenze affollavano i tavoli alla ricerca dell’Architetto ideale. In verità gli andava bene chiunque: effetto diretto dell’arsura procurata da una Facoltà dove di tette se ne vedevano ben poche.
Non era importante che avessi da studiare, che volessi farlo o meno. A qualsiasi ora del giorno, quando non sapevo cosa fare, quando avevo voglia di due parole, bastava andare lì: qualcuno che conoscevo lo trovavo sempre, e, se non conoscevo, si rimediava in fretta. Non era necessario consultare testi né darsi appuntamento, così come non era stato indispensabile pregare per ritrovarmi quotidianamente in oratorio.
Poi fu il local pub: meraviglia di origini irlandesi. Conobbi questa verità a Dublino. Per una ragazza di città persa nell’anonimato ritrovare un luogo di aggregazione sempre affidabile fu una deliziosa rivoluzione: “Ciao, dai, ci becchiamo stasera.” “Che fai, vieni al Bleeding? (pub della zona).”
Niente telefonate, niente attese, niente. C’hai voglia, vai. Non c’hai voglia, non vai. E, se vai, fa come l’oratorio o la biblioteca (o la piazzetta, per chi vive in paese). Era bellissimo.
Ritrovai la stessa fluidità nei miei trascorsi (infelici) in Austria da quel figo che amavo più di quanto lui amasse me. Saprei riconoscere la strada per il pub anche ora, a distanza di vent’anni: capitava che ci andassi da sola (il che dimostra quanto era stronzo), alla ricerca dei volti noti dei suoi amici (ormai amici miei).
Seguirono alcuni anni semibui in cui questi ambiti avevano ormai fatto il loro tempo e le uscite si erano trasformate in appuntamenti e catene telefoniche per uscire con “la compagnia”, incontrandosi nel tal posto alla tal ora, e riducendosi ad aspettare per interminabili mezzore chi ancora non si era palesato. Quelli furono tempi duri. Lo ammetto.
Finché, molto, molto tempo dopo, sono diventata mamma.
Che ne è stato dei luoghi ameni di ristoro sociale?
C’era una volta il local pub, ora c’è il local park: comincia a bazzicarci già col pancione, portati avanti. Io non l’ho fatto e, stupidamente, ho atteso l’occasione di scambio data dall’asilo. E le soste inevitabili al parco giochi quando vado a prendere i figli. Vai un giorno, vai due. Dopo sette anni e tre figli ormai ho un buon numero di conoscenze e un’ottima confidenza col luogo.
Manca lo smalto che sfoggiavo all’oratorio. Gli orecchini sono molto, molto più discreti (se no Isabelle ci si aggrappa). E la gonna… Gonna?!
Però un paio di colleghe di maternità con cui scambiare due parole le trovo sempre. E, nei giorni di liquida follia, il park diventa la presa a terra.