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La navata centrale

Creato il 20 febbraio 2011 da Barbaragreggio
La navata centraleLa città si spalancò davanti agli occhi senza avviso. Il calore verticale dell'asfalto mescolava i contorni dei palazzi, gettando riflessi diagonali sul fiume. Le mura medioevali circondavano l'abitato in un susseguirsi di merletti e piccole torri.Mantova si offriva paziente agli sguardi distratti della gente. Molti la attraversavano come si attraversa la corsia di un supermercato, concentrati sul volantino della rassegna.Parcheggiai poco dopo il ponte, girando a destra su per una strada sottile e senza curve. La luce inclinava la mia ombra sull'acciottolato, disegnando un ologramma fuggevole. La piantina della città si rivelò ben presto inutile, tutte le vie confluivano misteriosamente in un unico punto senza nome, né riferimento. Passai tre volte davanti allo stesso bar, intrecciando altrettante diagonali sulla piazza. Il calore saliva dalle caviglie lungo le braccia, colorandomi il volto di rabbia e frustrazione. Arrivai alla chiesa che il sole già scendeva dietro i palazzi. Il selciato era stato destinato a piazzetta, i tavolini del bar occupavano parte dell'ingresso, con sfrontatezza e indolenza. La facciata, fresca di colore, nascondeva un interno dismesso e ai limiti della decadenza. Un'unica navata conduceva al vecchio altare, nessun paramento copriva le pareti. Ai piedi di quello che un tempo doveva essere stato il pulpito, si ammassavano polvere e calcinacci. Al posto delle panche stavano sedie di plastica blu, lisce nella seduta consunta. Ero sola all'interno. Chiusi gli occhi e immaginai lo splendore barocco dell'organo a canne, l'abito bianco di una sposa emozionata, il pianto sincero di un neonato alla fonte battesimale.Lui entrò poco dopo, seguito da un piccolo gruppo di colleghi e amici. Vestiva un abito nero, ai piedi un paio di scarpe da ginnastica. Sentivo la tensione mangiarmi i respiri, gli occhi fissi sul palco. Mi guardò, e subito girai la testa altrove, incapace di sostenere i suoi occhi scuri fissi su di me. Compresi solo poi che l'insistenza del suo sguardo celava il bisogno di dare un nome al mio volto. Parlava bene, lui, sorrideva ad ogni battuta della sua intervistatrice. Il tintinnio dei bracciali che portava al polso accompagnava il racconto dei suoi viaggi, come una timida musica. Difendeva la sua anima inquieta, spostando l'attenzione su aneddoti lontani. C'era altro nella sua voce, la ricerca di una pace ancora da venire. Sorrideva un sorriso aperto che disegnava rughe profonde agli angoli della bocca.Stare a pochi metri da lui mi innervosiva.L'uomo seduto accanto a me aveva dita trasparenti e rovinate, attorno alle unghie cavava via strati di pelle fino a sanguinare. Poco oltre stavano due donne serene e appassionate.La sua voce rimestava in me il desiderio di stare sola con lui, avrei voluto che le sue parole calmassero i moti inquieti del mio animo. Non accadde, ovvio.Avevo sognato il nostro incontro la notte prima, e non era stato un bel sogno. La realtà non fu molto diversa.Scese dal palco con un balzo atletico. Saltò giù dalla pedana con naturalezza, aveva fretta d'uscire. Si voltò verso di me, mi guardò per un istante che sospese il tempo nella chiesa. Mi girai dalla parte opposta, dandogli le spalle. Non era quello il momento, non il modo. Volevo un minuto solo per me. Lo raggiunsi poi, giusto in tempo per farmi accerchiare da una decina di ammiratori impazienti e accaldati. Mi presentai a lui, e fu inutile. Lui sapeva già chi ero, non so come, né perché, mi aveva riconosciuta.Sorrise e fu un attimo.Strinse la mia mano nella sua, una presa lunga e solida. Il suo volto si fece severo.Parlò lui, ovvio. Io mi limitai ad annuire senza replicare. Le sue parole affondarono nei muscoli della schiena, infilandosi sotto la pelle. Rimasi immobile, ad ascoltare lo stesso discorso che mi aveva fatto in sogno, la notte prima. Le persone attorno a me origliavano. Mi sentii derisa dai loro sguardi di pietà.Non lo guardai negli occhi, lo ricordo solo ora. Mi concentrai sulla bocca sottile. Saprei descriverla nel dettaglio più insignificante, la sua bocca. Mi capita sempre, di fissare le labbra, i denti, il mento del mio interlocutore, per poi perdermi ciò che davvero conta: gli occhi. Lo salutai ed uscii svelta, le spalle ben dritte, la testa alta. Non mi voltai, mentre mi abbandonavo al pianto della sconfitta. Ero andata oltre il muro immaginario che lui aveva eretto tra noi. Avevo voltato l'angolo e gli ero comparsa davanti senza permesso. Non era stata presunzione, la mia. Ho questo maledetto bisogno di concretezza, la necessità di dare un volto alle voci. Avevo mal bilanciato i pensieri, lasciandomi guidare dal desiderio di incontrarlo. Lui era il mio spettatore speciale, quello seduto a metà della platea, annoiato e impaziente. Lo volevo conquistare come si conquista il sorriso di un bambino. Non avevo la malizia dell'arrivismo, né la freddezza del calcolo. Nel cuore avevo la forza di chi credeva in me, l'obiettività avvolgente di Catia, il sogno gentile di Elisa, la prudenza salvifica di Ilenia, le mani spesse di Emanuele.Lui non lo poteva sapere.Mentre scalfiva la parete confusa del mio presente, lui puniva la mia faccia ferma.Stupida e incosciente avevo accartocciato il mio sogno, lasciando che fosse lui a gettarlo a terra. Piansi sulla mia sconfitta maggiore.Non volevo un sì da lui, proprio come ora. Volevo un istante di verità, un guizzo di sole nel buio di un filo del telefono.Volevo lui, i suoi occhi nei miei, la sua onestà. Non m'importava nulla del suo possibile no.Non accadde, non è accaduto.Passarono le settimane, lo risentii. Sembrava felice, non ce l'aveva più con me.Qualcosa era cambiato.Se lo incontrassi ancora, certo, lo guarderei negli occhi.Barbara Greggio

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