La nera signora

Creato il 11 aprile 2013 da Dino Licci


La mia storia comincia da lontano e potrebbe partire da ancora più lontano ma, se dovessi ricordarmi quante volte, da ragazzo ho incontrato l’affezionata compagna di cui mi appresto a parlare, questo racconto non finirebbe più. Allora comincio dal periodo della mia maggiore incoscienza, quando ci si sente immortali e si pensa di poter dominare il mondo. Cominciamo dall’episodio della grotta. Soltanto il 1° Febbraio 1970 un gruppo di speleologi di Maglie avrebbe scoperto la Grotta dei Cervi di Porto Badisco, una baia stupenda dove ho trascorso la mia infanzia e la mia giovinezza. La grotta riveste un inestimabile valore archeologico per via dei graffiti, ottenuti con ocra rossa e guano di pipistrello, che raffigurano soprattutto scene di caccia (da qui il nome di grotta dei Cervi) ma anche simboli difficilmente interpretabili, ma certamente ascrivibili a riti religiosi praticati in età neolitica. Prima di quella data, nessuno sapeva della sua esistenza ma nel 1955, quando io avevo 12 anni, un amico, scout come me, mi disse se volevo partecipare ad un’esplorazione sotterranea. Si chiamava Grotta del Diavolo, a quei tempi, un cunicolo senza fine che oggi è chiuso da una robusta grata di ferro e che si apre sulla roccia a pochissimi metri dal mare. Armati di una lampadina tascabile ed un’inseparabile corda, cominciammo a strisciare sporcandoci tutti per decine e decine di metri finché arrivammo ad una sorta di laghetto che ci sbarrò il passo (oltre si sarebbe aperta l’odierna Grotta dei Cervi). Io suggerii di tornare indietro ma il mio amico aveva l’avventura nel sangue e si gettò nel laghetto non prima di aver illuminato un nome, inciso nella roccia, di una persona più grande di noi che certamente aveva fatto lo stesso percorso, armato della stessa incredibile incoscienza. L’immersione fu rapida e catastrofica, vuoi perché il mio amico cominciò a tremare per il freddo, vuoi perché si era portato dietro la lampadina che smise di funzionare lasciandoci al buio, non so quanti metri sottoterra ed incapaci di ritrovare la via del ritorno. La fortuna ci aiutò insieme con uno spiccato senso di orientamento e guadagnammo l’uscita proprio quando la respirazione era diventata così difficoltosa che credevamo di rimanere sepolti vivi per sempre. Fu allora che la vidi la prima volta: era giovane e bella ed aveva esattamente la mia età. Non quasi la mia età ma proprio la mia età. Capelli scurissimi ed occhi grandi, sorrideva beffarda e sorniona come può fare una gatta davanti ad un topolino. Cercò di ghermirmi con delle mani affusolate e curatissime, ma nascondeva qualcosa sotto un suo manto nero. Qualcosa che non vidi ma che mi fece tremare di paura. Provai a sorriderle intimorito ed inquieto, ma il suo ghigno malefico mi fece correre disperatamente verso il mare. Mi tuffai in acqua felice di bagnarmi anche camicia e pantaloni, in un bagno purificatore e tonificante, che mi tolse di dosso il fetore del guano ancora attaccato ai miei abiti, mentre un sole caldo ed amico, mi ritemprò velocemente, asciugandomi col calore dei suoi raggi dorati.La giovincella che avevo appena intravisto doveva crescere assieme a me perché quando la rividi, cinque anni più tardi, aveva ormai fattezze femminili. Bella e biecamente sublime, la rividi rincorrermi, agile come una gazzella, quando io avevo appena 17 anni e correvo come un razzo, correvo così forte cha ancora mi sogno, la notte, quella folle velocità ed un salto incredibile che forse, in una gara olimpionica, mi avrebbe assicurato una medaglia d’oro. Ma è meglio che racconti quell’accadimento che ricordo compiutamente fin nei minimi particolari. Durante una gita tra amici, stavamo percorrendo, in una macchina guidata dal più anziano fra noi, una strada fortemente in discesa quando, da una stradina laterale sbucò un carro, simile nelle fattezze a quei carretti siciliani tirati dai cavalli e tutti colorati, ma molto più grande e trascinato in avanti a folle velocità da un ronzino che certamente aveva eluso la sorveglianza del padrone. Immaginai le tragedie cui potevano andare incontro eventuali veicoli provenienti in senso opposto e senza pensarci due volte scesi dalla macchina, imitato da un altro incosciente compagno che mi disse di afferrare le redini, mentre lui avrebbe tentato di azionare quei freni rudimentali che insistevano sulle ruote alte più di due metri. Il proprietario dell’auto, molto coraggiosamente, fece una manovra ad U e se ne andò lontano mentre il mio amico strisciava dietro il carretto attaccandosi disperatamente a quei freni che non potevano funzionare. Ma peggio di tutti stavo io perché da cacciatore divenni cacciato, col cavallo che, imbizzarritosi per la paura, si mise a correre talmente forte che io dovetti diventare un campione olimpionico della corsa per evitare di essere travolto. Mi salvò uno di quei muretti a secco che abbelliscono le nostre strade di campagna, qui nel basso Salento. Era alto più di due metri ma lo scalai con la velocità del fulmine mentre il cavallo, non potendo frenare la sua corsa, ci sbatté contro la testa e si piegò sulle gambe liberandomi dall’incubo di quella folle corsa .Lentamente apparvero dal nulla il proprietario dell’auto e il padrone del carretto che, con passo cadenzato ed un sorriso ebete sulle labbra, ci ringraziò per l’aiuto che gli avevamo dato per fermare quell’animale ribelle. Non ebbi neanche la forza di arrabbiarmi né voglia di farlo perché tutta la mia attenzione era per la ragazza in nero che sorridente ed ironica mi sussurrò: “ci vedremo presto” e fu prodigiosa indovina.Avevo vent’anni e vagavo in un mese d’Agosto particolarmente afoso, per le strade di Roma fino a raggiungere la Stazione Termini, ricca di idiomi diversi ed una frenetica vita cui, io giovane provinciale, ancora non ero abituato. Vagavo senza meta tra quella folla anonima assaporando per la prima volta il gusto amaro della solitudine. Ero abituato al calore della mia gente, qui nella mia terra, in un paesino che ruota attorno alla Chiesa e dove tutti si chiamano per nome. Un altro tipo di calore si andava invece sprigionando incredibilmente, a livello della mia coscia destra, che cominciava addirittura a bruciare. Cominciai a rendermi conto di quanto mi stava succedendo, solo quando vidi che i miei pantaloni andavano a fuoco e, solo dopo molti minuti, a mente fredda, capii cosa era successo: alcuni fiammiferi tipo Minerva, intrisi di zolfo, quelli che si accendono quando vengano sfregati contro l’ annessa cartina che contiene perossido di piombo, si erano accesi spontaneamente, coinvolgendo nella fiammata prima i miei pantaloni, poi anche la giacca e la camicia. Cominciai a rotolarmi a terra tra la curiosità di una folla incuriosita ma incredibilmente apatica, che mi guardava a bocca aperta senza che nessuno muovesse un dito per aiutarmi. L’unica persona che mi degnò di attenzione, fu la ragazza in nero, ormai compiutamente donna, che andava dicendo sorridendomi: “questa volta non mi scappi”. E invece la lasciai di stucco, mentre cercando di coprire le mie bruciacchiate pudenda, me ne tornavo a casa facendomi strada tra quei romani così privi di spirito caritatevole.Vent’anni poi trenta, quaranta, cinquanta, sessanta. Quante altre volte si sarà affacciata a tenermi compagnia la mia “dolce” compagna? Molte volte, certo ma sempre per breve tempo e distratta da altre mansioni forse propedeutiche all’attacco finale. Le ho parlato l’anno scorso quando si sedette accanto a me in un’ambulanza che mi trasportava in Ospedale. Ma io ero furioso per quello che mi era accaduto e non mi accorsi neppure che “lei” era accanto a me, forse troppo preso dall’alterco con una giovane dottoressa, che si ostinava a volermi tagliare la barba. Certo il mio labbro sanguinava essendo stato tagliato di netto dai miei stessi incisivi, ma io non mi farei mai suturare la mucosa orale e poi credo sia più importante vedere perché il mio braccio si rifiuta di muoversi. Non so come possano aver lasciato quella lunga lastra trasparente proprio vicino ai carrelli di un supermercato e proprio sullo scivolo che sembra una pista di lancio per sciatori. Riconosco di non averla vista e ricordo di essere volato come un missile sbattendo la testa contro un cassone di ferro che sembrava essere stato messo lì per misurale la durezza della mia capoccia. Mentre mi sottoponevo ad una Tac ecco che lei si siede accanto a me. Devo stare immobile certo e con gli occhi chiusi ma la vedo benissimo anche così. E’ invecchiata, sembra diventata più paziente e mi guarda quasi con simpatia. Aspetta insieme con me il referto del medico ed io ho tutto il tempo di parlarle: “Sei stanca vero? Sei stanca di seguirmi ormai da tanti anni infruttuosamente e credo proprio che dovrai aspettare ancora un poco. E poi ora che siamo vecchi tutti e due, abbiamo imparato a ragionare con calma. So a cosa stai pensando. Tu intanto esisti in quanto ci sono io. Se mi fai fuori subito, finirai con me. Di la verità. Ti sei affezionata a questo vecchio compagno vero? Lasciati ammirare. Magari non ne avrò più l’occasione. Potresti decidere di farmi fuori con quelle morti istantanee che non danno il tempo di riflettere. Io non ti temo sai? Non ti temo più. Saranno state le letture di Epicuro a rendermi così apatico? Sembra quasi che io abbia raggiunto l’atarassia degli stoici. Ma ci ho parlato con Epicuro, in quelle mie notti silenziose che danno linfa alla mia vita interiore. Lui dice che se ci sei tu, non ci sono più io e viceversa. Io invece ti considero una compagna che da gusto alla mia vita. Che noia sarebbe la vita senza di te. Senza questa entusiasmante lotta con te, che mi sei sempre vicina.Dino Licci

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