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Sono molti i casi di persone che in stato di morte clinica, a seguito di un incidente o di un arresto cardiaco, al risveglio riportano esperienze note al grande pubblico come Near-Death Experience (esperienze di pre-morte o quasi-morte).
Solitamente, i ricercatori tendono ad attribuire queste visioni a fattori psicologici o fisiologici, dovuti all’ipossia, ovvero privazione di ossigeno, o ad uno stato cerebrale simile al sogno REM.
Queste le cause che farebbero ricordare al risveglio scene dell’aldilà, interazione con parenti defunti, revisione di vita e altro.
Tuttavia, le esperienze di pre-morte riportate dai pazienti divergono notevolmente da quelle sperimentate in condizione di ipossia o di sonno REM. “I pazienti riferiscono quasi sempre di aver vissuto un’esperienza iper-reale, che eclissa di gran lunga il nostro ordinario, certi di trovarsi nella loro vera casa, permeata di amore condizionato, e senza più aver paura di morire”, riportaRobert Mays, studioso di casi di NDE da oltre trent’anni.
“Questi aspetti caratteristici semplicemente non sono presenti nell’ipossia, nello stato REM, e così via”, continua Mays.
I ricercatori dell’Università di Liegi, Belgio, hanno voluto esaminare altri aspetti fisiologici. Si sono chiesti se le persone che hanno avuto esperienze simili alle NDE in situazioni di non-pericolo di vita (come il sonno, la meditazione o lo svenimento), avrebbero descritto gli stessi sentimenti delle persone che hanno sperimentato l’NDE durante situazioni di pericolo di vita, come l’arresto cardiaco.
Come riporta The Epoch Times, lo studio comparato sembra dimostrare che le persone, in entrambe le situazioni di pericolo e non, descrivono le loro esperienze nello stesso modo in termini di contenuto e di intensità. “Sembra che ci sia una coerenza e comunanza dell’esperienza, indipendentemente dai fattori fisiologici”, riassume Mays.
Ampliando lo sguardo, Mays ha sottolineato la mancanza di prove su una connessione tra mente e cervello. Se fosse dimostrato che la mente è un frutto dell’attività del cervello, allora l’idea che le NDE sono semplici eventi cerebrali sarebbe vera.
Eppure, un “centro del sè” non è stato trovato nel cervello, dice Mays. Elencando quelli che lui chiama gli “enigmi della coscienza”, il ricercatore ha evidenziato come la personalità sia in grado di coordinare diverse regioni del cervello.
Ad esempio, nonostante la presenza di una disfunzione cerebrale grave, una mente unitaria e coerente è comunque in grado di esistere. Se la coscienza fosse così dipendente dal cervello, ci si aspetterebbe che un cervello danneggiato frammenti la coscienza centrale della persona.
Mays ha parlato di un fenomeno chiamato “lucidità terminale”, durante il quale le persone con cervelli disfunzionali (compresi i malati di Alzheimer), poco prima di morire cominciano improvvisamente recuperare la struttura razionale del pensiero e i loro ricordi.
Questo fenomeno, secondo Mays, può mostrare che la coscienza centrale della persona non viene compromessa quando il cervello è danneggiato, esistendo in maniera quasi indipendente.
Mays è convinto che le neuroscienze potrebbero trarre grandi vantaggi da uno studio più approfondito della NDE. Ad esempio, se si dimostrasse definitivamente che la coscienza è in grado di operare al di fuori del cervello, la si potrebbe utilizzare per trattare alcuni danni cerebrali.
Mays vorrebbe poter avere accesso ad attrezzature adeguate, collaborando con i neuroscienziati per verificare come la mente possa interfacciarsi fisicamente con i neuroni. Ciò potrebbe essere realizzato studiato i neuroni coltivati in vitro.
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