Dolci romantici viandanti, quelli sul mare di nebbia, che osservano tutto e niente, inconsapevoli dell’invisibilità di cui soffrono. Perfido morbo invisibile e terreno, sfogo cutaneo che rende noi osservati e contemplati da sussulti esterni, nebbie che non sanno definirci, e non sono interessate a farlo. La noia ci divora giorno dopo giorno nella lentissima consapevolezza che non potremmo fare altro che morire, piano ed in silenzio. Moriamo per sparizione, per mancanza di sussulti, indossando coltri trasparenti, coinvolti e concentrati sul nostro io di ora e di ieri.
Se solo ieri non fosse esistito, se solo oggi fossimo stupidi, talmente stupidi da voler vivere anche domani.
Costanza Lindi
“Ricordo benissimo come fu che cessai di dipingere. Una sera, dopo
essere stato otto ore di seguito nel mio studio, quando
dipingendo per cinque, dieci minuti e quando gettandomi sul
divano e restandoci disteso, con gli occhi al soffitto, una o due
ore; tutto ad un tratto, come per un’ispirazione finalmente
autentica dopo tanti fiacchi conati, schiacciai l’ultima
sigaretta nel portacenere colmo di mozziconi spcnti, spiccai un
salto felino dalla poltrona nella quale mi ero accasciato,
afferrai un coltellino radente di cui mi servivo qualche volta
per raschiare i colori e, a colpi ripetuti, trinciai la tela che
stavo dipingendo e non fui contento finché non l’ebbi ridotta a
brandelli. Poi tolsi da un angolo una tela pulita della stessa
grandezza, gettai via la tela lacerata e misi quella nuova sul
cavalletto. Subito dopo, però, mi accorsi che tutta la mia
energia, come dire creatrice, si era completamente scaricata in
quel furioso e, in fondo, razionale gesto di distruzione. Avevo
lavorato a quella tela durante gli ultimi due mesi, senza tregua,
con accanimento; lacerarla a colpi di coltello equivaleva, in
fondo, ad averla compiuta, forse in maniera neattiva,quanto ai
risultati esteriori che del resto mi interessavano poco, ma
positivamente per quanto riguardava la mia ispirazione. Infatti:
distruggere la tela voleva dire essere arrivato alla conclusione
di un lungo discorso che tenevo con me stesso da chissà quanto
tempo. Voleva dire aver messo finalmente il piede sul terreno
solido. Cosí, la tela pulita che stava adesso sul cavalletto, non
era semplicemente una qualsiasi tela non ancora adoperata, bensí
proprio quella particolare tela che avevo messo sul cavalletto al
termine di un lungo travaglio. Insomma, come pensai cercando di
consolarmi del senso di catastrofe che mi stringeva alla gola, a
partire da quella tela, simile, apparentemente, a tante altre
tele ma per me carica di significati e di risultati, adesso
potevo ricominciare daccapo, liberamente; quasi che quei dieci
anni di pittura non fossero passati ed io avessi ancora
venticinque anni, come quando avevo lasciato la casa di mia madre
ed ero andato a vivere nello studio di via Margutta, per
dedicarmi appunto, a tutto mio agio, alla pittura. D’altra parte,
però, poteva darsi, anzi era molto probabile che la tela pulita
che adesso campeggiava sul cavalletto, stesse a significare uno
sviluppo non meno intimo e necessario ma del tutto negativo, il
quale, per trapassi insensibili, mi aveva portato all’impotenza
completa. E che questa seconda ipotesi potesse essere quella
vera, sembrava dimostrarlo il fatto che la noia aveva lentamente
ma sicuramente accompagnato il mio lavoro durante gli ultimi sei
mesi, fino a farlo cessare del tutto in quel pomeriggio in cui
avevo lacerato la tela; un po’ come il deposito calcareo di certe
sorgenti finisce per ostruire un tubo e far cessare completamente
il flusso dell’acqua.
Penso che, a questo punto, sarà forse opportuno che io spenda
qualche parola sulla noia, un sentimento di cui mi accadrà di
parlare spesso in queste pagine. Dunque, per quanto io mi spinga
indietro negli anni con la memoria, ricordo di aver sempre
sofferto della noia. Ma bisogna intendersi su questa parola. Per
molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è
distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il
contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che
per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto,
appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un
genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una
specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà.
Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha
sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo
corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi
e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e
cosí non riesce mai a prender sonno veramente. Oppure, altro
paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e
misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto
è chiaro ed evidente, qui sono le poltrone, lí i divani, piú in
là gli armadi, le consolle, i quadri, i tendaggi, i tappeti, le
finestre, le porte; un momento dopo non c’è piú che buio e vuoto.
Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una
malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita
di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per
trasformazioni successive e rapidissime un fiore passare dal
boccio all’appassimento e alla polvere.
Il sentimento della noia nasce in me da quella dell’assurdità di
una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di
persuadermi della propria effettiva esistenza. Per esempio, può
accadermi di guardare con una ccrta attenzione un bicchiere.
Finché mi dico che questo bicchiere è un recipiente di cristallo o
di metallo fabbricato per mettcrci un liquido e portarlo alle
labbra senza che si spanda, finché, cioè, sono in grado di
rappresentarmi con convinzione il bicchiere, mi sembrerà di avere
con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla
sua esistenza e, in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate
che il bicchiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che
ho detto, ossia che mi si palesi come qualche cosa di estraneo,
col quale non ho alcun rapporto, cioè, in una parola, mi appaia
come un oggetto assurdo, e allora da questa assurdita scaturirà
la noia la quale, in fin dei conti, è giunto il momento di dirlo,
non è che incomunicabilità e incapacità di uscirne. Ma questa
noia, a sua volta, non mi farebbe soffrire tanto se non sapessi
che, pur non avendo rapporti con il bicchiere, potrei forse
averne, cioè che il bicchiere esiste in qualche paradiso
sconosciuto nel quale gli oggetti non cessano un solo istante di
essere oggetti. Dunque la noia, oltre alla incapacità di uscire
da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse
uscirne, grazie a non so quale miracolo.
Ho detto che mi sono annoiato sempre; aggiungo che soltanto in
tempi abbastanza recenti sono riuscito a capire con sufliciente
chiarezza che cosa sia realmente la noia. Durante l’infanzia e
poi anche durante l’ adolescenza e la prima giovinezza, ho
sofferto della noia senza spiegarmela, come coloro che soffrono
di continui mal di testa ma non si decidono mai a interrogare un
medico. Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme
del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di
spiegare e che gli altn, nel caso mia madre, attribuivano a
disturbi dclla salute o altre simili causc; un po’ come il
malumore dei bimbi piú piccoli viene attribuito allo spuntare dei
denti. Mi avveniva, in quegli anni, di cessare improvvisamente di
giocare e di restare ore intere immobile, come attonito,
sopraffatto in realtà dal malessere che mi ispirava quello che ho
chiamato l’avvizzimento degli oggetti, ossia dall’oscura
consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto.
Si in quei momenti mia madre entrava nella stanza vedendomi
muto, inerte e pallido per la sofferenza mi domandava che cosa
avessi, rispondevo invariabilmente: “mi annoio”; spiegando cosí,
con una parola di significato chiaro e angusto, uno stato d’animo
vasto e oscuro. Mia madre, allora, prendendo sul serio la mia
affermazione, si chinava ad abbracciarmi poi mi prometteva di
portarmi al cinema quel pome riggio stesso, ossia mi proponeva un
divertimento che come sapevo ormai benissimo, non era il contrari
della noia né il suo rimedio. E io, pur fingendo accogliere con
gioia la proposta, non potevo fare meno di provare quello stesso
sentimento di noia, che mia madre pretendeva fugare, per le sue
labbra che si posavano sulla mia fronte, per le sue braccia che
mi circondavano le spalle, nonché per il cinema che lei mi faceva
balenare come un miraggio davanti a occhi. Anche con le sue
labbra, con le sue braccia con il cinema, infatti, io non avevo
alcun rapporto quel momento. Ma come avrei potuto spiegare a mia
madre che il sentimento di noia di cui soffrivo nob poteva
essere alleviato in alcun modo? Ho già notato che la noia
consiste principalmente nell’incomunicabilità. Ora, non potendo
comunicare con mia madre dalla quale ero separato come da
qualsiasi altro oggetto, in certo modo ero costretto ad accettare
il malinteso e a mentirle.”
A. Moravia