Quella che non rifarebbero più, ammettono senza mezzi termini, è la collezione d'ispirazione hippy del 2004, mutuata da quella femminile ma che non faceva parte del loro Dna. Per il resto, i vent'anni dell'uomo firmato Domenico Dolce e Stefano Gabbana non possono che definirsi un successo. «In pratica – raccontano i due stilisti nel salotto zebrato del quartier generale creativo di Milano, alla vigilia della sfilata che sarà "romantica e siciliana" e dell'evento-mostra con red carpet a Palazzo Marino – l'incidenza sul fatturato wholesale delle collezioni maschili è di poco inferiore alla metà: uomo e donna sono in equilibrio e siamo una delle poche aziende private ad avere un risultato così straordinario, frutto non soltanto del marketing, ma anche della nostra passione». Il debutto nel segmento maschile, cinque anni dopo quello femminile (finanziato con 2 milioni di lire), è nato per caso. «Ci vestivamo con abiti degli stilisti giapponesi, da Comme des Garçons a Yohji Yamamoto, oppure con capi vintage – dice Gabbana – ma a un certo punto ci siamo accorti che non ci bastava più. Del resto, la famiglia Dolce aveva una tradizione sartoriale sia nell'uomo sia nella donna e così ci siamo buttati». Lanciando, di stagione in stagione, l'uomo in canottiera e quello in mutande griffate – come i calciatori muscolosi e tatuati della Nazionale di calcio – ma anche il banchiere o l'avvocato d'affari in completo grigio, camicia bianca e cravatta scura, a perfetto agio nella City o nel Cda. «È stato il calcio – dice Dolce – che ha sdoganato la moda per l'uomo, da David Beckham in giù: l'uomo ora si prende cura di sé e, chi più chi meno, come la donna fa shopping per i diversi momenti di utilizzo di un abito o un accessorio, dal lavoro alla discoteca passando per la palestra». Una segmentazione di prodotto che, spalmata tra le linee Dolce&Gabbana e D&G, è ovviamente uno dei focus strategici di un gruppo che dà lavoro a 3.578 addetti nel mondo. «Anche il tema dei prezzi è molto importante – dicono i due stilisti-imprenditori – perché con la crisi internazionale i clienti non acquistano più un prodotto se il listino non è congruo. Noi, oltre ad avere limato parecchio i prezzi da diverse stagioni, siamo molto attenti in questo campo: è inutile, ad esempio, abbassare l'entry price offrendo una T-shirt bianca che conviene andare a comprare nelle catene di fast fashion. Così come proporre un jeans a quasi 500 euro ha un senso solo se, come nella collezione invernale, il capo è foderato in seta e l'etichetta esterna è placcata oro. In ogni caso, se un capo resta sotto la macchina per cucire troppo a lungo e ha un prezzo che appare caro, lo eliminiamo senza pietà». Sul fronte economico-finanziario, l'esercizio al 31 marzo 2010 si è chiuso con ricavi consolidati in sofferenza: -15% a 1.030 milioni di euro. Ma i margini sono in crescita: l'ebitda è salito al 23,7% del fatturato dal precedente 23%, l'ebit al 15,2% dal 15%, mentre il risultato prima delle imposte è balzato al 15,7% dal 14% di un anno prima. La posizione finanziaria netta, che era negativa per 8,2 milioni al 31 marzo 2009, era positiva per 127 milioni dodici mesi dopo (ed è salita a +163 milioni a metà giugno). «Bisogna essere realisti», ragionano i due. «L'effervescenza di un tempo non esiste più. Il mercato è pacato, ma il sell-out nei negozi è buono: a metà giugno nei 112 negozi a gestione diretta siamo a +25% e gli ordini dell'autunno prossimo viaggiano a +3,6%, con la donna stabile e l'uomo in crescita. E la previsione di chiusura della precollezione uomo primavera 2011 è di +24%». Un rimbalzo che sta coinvolgendo tutte le aree geografiche, in primo luogo l'Asia, dove saranno concentrati in due esercizi investimenti per 43 milioni». I vent'anni dell'uomo Dolce&Gabbana saranno celebrati anche da ben tre libri: «Saranno – concludono – un punto fermo sul nostro lavoro, un modo per lasciare un segno: il nostro sogno è essere bravi. Ed essere ricordati magari come il grande Giorgio Armani».