di Franco Cocchi
Il secolo scorso ha visto dispiegarsi una stagione di grande vivacità e trasformazioni per la ceramica dell’Umbria. È vero che l’immaginario collettivo tende ad identificarla con una ‘tradizione” di repertori decorativi ricchi di raffaellesche, foglie d’acanto e damaschine, che a molti piace raccontare come se fosse tramandata di padre in figlio, ma ciò non corrisponde alla realtà. La attività ceramica dei centri umbri, quasi scomparsa alla metà dell’Ottocento, non sarebbe sopravissuta se non fosse stato per l’iniziativa, anche imprenditoriale, di artisti e intellettuali che ripresero a studiare, copiando e rielaborando, le antiche decorazioni.
Incoraggiati tanto dalla diffusa estetica storicista, quanto dalla rivalutazione delle identità patriottiche, riaprirono le fornaci e avviarono quelle imprese che fecero, più tardi, la fortuna della ceramica artistica umbra. Si generò, così, un rapporto inestricabile – ma ciò pare una condizione connaturata alla ceramica- fra arte e industria. Questo rapporto non ebbe un andamento lineare, e benché il fenomeno non abbia avuto ancora sufficiente approfondimento, si intravede come tra Otto e Novecento, le vicende della ceramica umbra abbiano rappresentato una sorta di traduzione locale del movimento delle Arts and Crafts di William Morris. Sono, infatti, forti le somiglianze tra le imprese artigiane di Morris, strenuamente avverso alla produzione industriale in serie e propugnatore del ritorno al lavoro manuale, e quella de “Vasellari Eugubini Mastro Giorgio” fondata a Gubbio da Ilario Ciaurro e Aldo Ajò, o la analoga “Arte dei Vascellari di Orvieto”dello stesso Ciaurro con Pericle Perali o, ancora, la “Grazia” di Ubaldo Grazia.
Fino agli anni Venti circa, il risultato produttivo fu una ceramica che guardava al passato, magari rinnovandolo con qualche rivisitazione liberty, come si vede nelle contemporanee esperienze di Alpinolo Magnini a Deruta e di Alfredo Santarelli a GualdoTadino. Una produzione di buon successo, rivolta prevalentemente ad un pubblico colto e folto, ma anche nostalgico e passatista. Resiste, perciò, l’Umbria agli attacchi diretti ai “falsificatori di ceramiche” messi all’indice dal Manifesto dei pittori futuristi già dal 1910, ma non può rendersi altrettanto impenetrabile alle rapide e travolgenti trasformazioni dell’arte e dell’architettura internazionale che giungono fino all’arredamento domestico, dove Decò e Moderno rigenerano il classico italiano. In quel periodo – ci avviciniamo agli anni Trenta – anche la ceramica umbra vive delle ulteriori trasformazioni. Lo scenario è, ora, dominato dalle pretese egemoniche e monopolistiche della Maioliche Deruta-CIMA, che in pochi anni ha conseguito le maggiori quote di mercato del settore della ceramica artistica italiana (da ciò ancora il primato umbro attuale), anche se restano vivaci alcune case indipendenti come la Grazia di Deruta e la neonata (1927) Rometti di Umbertide.
Il gruppo Deruta-CIMA si organizza come una manifattura industriale di larga scala e specializza le produzioni di carattere tradizionale negli stabilimenti di Castelli, Deruta, Gubbio e Gualdo Tadino, mentre quelle innovative, di stile Decò e Moderno, trovano posto in quelli di Perugia (La Salamandra e Aretini). Grande merito di questa impresa fu anche quello di avere aperto le porte, senza riserve, agli artisti e ai designer rendendola una dei principali laboratori di progettualità artistica applicata alla produzione industriale. È in questo scenario che si colloca la condizione comune degli artisti richiamati in questa rassegna. L’avere, cioè, avuto a che fare con la cultura ceramica umbra, densa di connotazioni storiche, memorie, archetipi ben conservati e un apparato industriale imponente, mentre il filo conduttore delle loro diverse esperienze ceramiche sta, invece, nell’ansia del nuovo che questi interpretarono nei decenni intorno alla metà del secolo. Emblematica ed anticipatrice è perciò, l’esperienza del giovanissimo Corrado Cagli attivo alla Ars Umbra di Settimio Rometti appena costituita, dove, a dispetto del nome che sembrava richiamare memorie storiciste, l’opera dell’artista e degli altri protagonisti della fabbrica si muove in sincronia con le correnti dell’arte contemporanea. Una breve stagione, questa, destinata a tramontare in poco più di un decennio, quando al limitare della seconda guerra mondiale, la crisi di identità della ceramica italiana e, poco dopo, l’economia di guerra risulteranno devastanti. Sembrano accorgersene, per primi, alla maioliche Deruta che lanciano nel 1939-40 la linea Derutanova affidata ad Enrico Ciuti e ingaggiano Nino Strada che, partito dalle esperienze futuriste con Tullio d’Albissola approda, proprio a Deruta, ad un personalissimo stile. Nel dopoguerra la crisi è evidente, il disastro economico mette in grave difficoltà tutta le manifatture artistiche.
La Maioliche Deruta, tenta nuovamente di rinnovarsi affidandosi a Brajo Fuso, con cui partecipa alla IX Triennale di Milano, ma è contemporaneamente minacciata da una grave crisi finanziaria che la condurrà, dopo una lunga agonia alla definitiva chiusura. La ricerca verso nuove espressioni e forme della ceramica, non passa più per l’industria, oramai ridotta per dimensioni e capacità economica, ma parte dagli artisti stessi ed è sostenuta dagli apparati culturali che un’organizzazione, per lo più volontaristica, fa concretizzare in premi e concorsi che divennero spesso porte di ingresso per l’Umbria o, al contrario, servirono a rivelare all’esterno i talenti umbri. È il caso del Premio Deruta, edizione 1954, che rivela il giovanissimo Edgardo Abbozzo, come fosse la personificazione della nuova ceramica umbra di cui i promotori della manifestazione erano alla ricerca, ma che avvicina alla ceramica anche i pittori della Scuola Romana, giovani ma già di rango, da Renato Cristiano, il vincitore, a GiulioTurcato. Non sarà certo un caso che tra i giurati del concorso vi fossero Corrado Cagli e Leoncillo Leonardi, quest’ultimo laureato nello stesso anno al Premio Faenza. Ai ragazzi straordinari che tentavano di innovare la ceramica con le loro decorazioni astratte variopinte, si aggiunse presto la schiera dei materici — informali che trovavano nella ceramica un terreno particolarmente congeniale anche – per dirla con le parole di Cesare Brandi – “per la evidente intenzione degli artisti informali di tagliare ogni sorta di nesso o di cordone ombelicale con il passato”.Vi si cimentano in diversi, specie nelle edizioni del Concorso internazionale della ceramica di Gualdo Tadino che si tengono annualmente dal 1959 e alla Biennale della ceramica di Gubbio dal 1960. Il rapporto degli artisti con la fabbrica è, tuttavia, molto allentato e rimane difficile anche quando dall’una e dall’altra parte, negli anni Settanta, si fanno seri tentativi di dialogo. Ci provano Alviero Moretti e Mario Lispi che consorziano un bel gruppo di aziende per produrre multipli d’artista e, sull’altro versante, Nino Caruso e Piero Dorazio che fondano a Todi il Centro Internazionale della Ceramica Montesanto, uno dei rari casi italiani, di studio pottery. Restano, invece quasi ignorati e senza alcuna eco produttiva, i cretti di Burri e i togli di Leoncillo benché conducano la ceramica ad elevate ed autonome espressioni artistiche. Eppure, con il grande pannello arancione della Expo Universale di Montréal nel 1967, Leoncillo Leonardi otteneva, finalmente, anche il riconoscimento pubblico da tempo atteso e, con lui, la ceramica come arte toutcourt: “Leoncillo pensava in ceramica, ma nel modo più eletto – scrive infatti all’epoca Cesare Brandi – come Michelangiolo pensava in marmo, accogliendo cioè le possibilità insite del procedimento tecnico e delle qualità esteriori come una struttura di visione”.
Da: G. Busti, F. Cocchi, A.C.Ponti, Arte all’opera. Artisti e ceramica del Novecento in Umbria, Perugia 2006