Il presidente serbo Boris Tadic
A oltre un decennio dalla fine delle guerre jugoslave e dalla caduta del regime di Slobodan Milosevic, la Serbia è un paese democratico che, lentamente ma con costanti passi in avanti, sta portando avanti il processo di integrazione europea e si sta liberando del proprio passato, grazie alla volontà politica dell'attuale presidente della repubblica Boris Tadić, leader del Partito democratico. Un politico liberale, europeista, degno erede del primo premier democraticamente eletto della storia serba, Zoran Đinđić, che con pragmatismo e lungimiranza ha saputo credere nel nuovo SPS di Ivica Dačić, il partito socialista che fu di Milošević, col quale Tadić ha stretto un'alleanza nel 2008, riuscendo anche in seguito, indirettamente, a provocare una spaccatura tra gli ultranazionalisti con la nascita del Partito progressista di Tomislav Nikolic, staccatosi dal Partito radicale di Vojslav Seselj, sotto processo all'Aja per crimini di guerra. Questa è, a grandi linee, la sintesi che analisti ed esperti occidentali di cose balcaniche fanno dell'attuale realtà della Serbia. Secondo Filip Stefanović, però, questa immagine è frutto di un atteggiamento di "colpevole superficialità o fiducioso ottimismo", che non coglie, invece, il dilagante malessere che monta nella società serba.In un articolo molto interessante, pubblicato su EaST Journal, Stefanovic punta il dito su un sistema partitico marcio e corrotto, sulla lottizzazione ed il parassitismo, sulla tacita e massiccia censura dei media, su una politica, estera e interna, cinica e ipocrita, sul testardo mantenimento e sovenzionamento di strutture parallele in territorio straniero (Kosovo) e sulla ripetizione di slogan degni dell'epoca di Milošević, che hanno portato in questi ultimi giorni ad un grave crescendo di tensioni interetniche. Secondo Stefanovic, le due coalizioni partitiche che si appoggiano al governo, sono totalmente incapaci di occuparsi e stanno favorendo la prossima vittoria elettorale di Nikolić, che per quanto possa rappresentare l’ala moderata e costituzionalista della destra serba, condivide pur sempre nel proprio Dna le origini storiche degli ultranazionalisti. In questo quadro l’unica alternativa possibile è il Partito liberaldemocratico di Čedomir Jovanović, più vicino alle posizioni originarie dell’ex premier Zoran Đinđić e più sinceramente europeista, oltre che unico partito favorevole all’indipendenza del Kosovo: ma esso rappresenta solo il 5% circa dell’elettorato e alle prossime elezioni potrebbe allearsi coi Democratici di Tadic per garantirne la maggioranza, venendo così neutralizzato.
Io non mi considero certo un grande esperto di cose balcaniche, però ammetto di condividere abbastanza quell'immagine della Serbia attuale che Stefanovic accusa di essere troppo superficiale e troppo ottimista. Ma, nonostante la sua analisi, in qualche passaggio, mi sembri eccessivamente pessimista, trovo il suo articolo molto interessante, anche perché condivido le conclusioni, là dove Stefanovic scrive che se ad oggi le uniche speranze per mettere in moto la Serbia stanno in spinte esterne da parte dell’Europa, "sarebbe ancora più opportuno che l’occidente avesse una visione quanto più obiettiva e disincantata della politica serba, lasciando da parte certi affreschi ormai banali e quasi stucchevoli di una democrazia in costruzione, e chiedendosi finalmente perché, a dodici anni dalla rivoluzione che ha detronizzato Milošević, più di quanti sia durato il suo stesso regime, la “transizione” sia un processo ormai eternalizzato, quasi mitico, piuttosto che felicemente riuscito e storicamente concluso".
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