La sperimentazione del potere patogenetico di sostanze medicinali su persone sane, o ‘proving’ (leggi pruvin), è notoriamente uno dei principi fondamentali dell’omeopatia. Sin dai tempi di Hahnemann esso rappresenta l’unica conoscenza affidabile delle proprietà terapeutiche di una sostanza. Quando ci si guarda intorno, nel mondo attuale della ricerca omeopatica, però non mancano le sorprese.
L’omeopata dell’Ottocento che, nei ritagli di tempo, sperimentava su di sé sostanze diluite e dinamizzate secondo la metodica classica, si auto-osservava, descriveva la patogenesi su un taccuino, è un’immagine ormai sfocata, da album di famiglia. In duecento anni di storia la medicina si è evoluta, e con lei la medicina omeopatica. Anche la sperimentazione omeopatica, sulla scia, metodologica se non ideologica, dei successi di quella ufficiale, è andata incontro a un’evoluzione. Modelli in vitro e in vivo, su animali e sull’uomo, sono stati usati per testare il potere farmacologico di innumerevoli sostanze. Nella prima fase (farmacologia clinica: studio farmacocinetico e farmacodinamico su volontari in salute) sembra che la metodica sia sovrapponibile a quella hahnemanniana, poi le strade si dividono. Il soggetto conoscente viene separato dall’oggetto conosciuto, mentre nella sperimentazione omeopatica lo sperimentatore fa parte integrante dell’esperimento.
Quello che il trasgressivo Hahnemann, con i suoi ‘rudimentali’ proving con pochi campioni e niente statistiche, non riteneva necessario, anzi aborriva, duecento anni fa, e cioè il confronto con la medicina ufficiale, sta pian piano facendosi strada nell’omeopatia moderna. Le diverse scuole di pensiero, più o meno legate alla scuola classica hahnemanniana, ora non disdegnano un’ibridazione con le metodologie della ricerca moderna. A cominciare dal termine. Così il ‘proving’ diventa ‘homeopathic drug proving’ (HDP, gli acronimi vanno tanto di questi tempi…), o addirittura un elegante ‘homeopathic pathogenetic trial’ (altra sigla: HPT), più consono a parallelismi con ‘randomized clinical trial’ e ‘trial’ di ogni genere e specie della medicina ufficiale.
I confini, così chiari alla fine del Settecento, fra medicina convenzionale e medicina omeopatica, sfumano; il medico omeopata oscilla fra la credibilità delle evidenze derivate da trial convenzionali e la purezza delle sperimentazioni sull’uomo sano. Per non perdere i vantaggi delle due metodiche e avere sempre, ippocraticamente, come primo obiettivo la salute del paziente, fa un passo verso il futuro2 (tradisce Hahnemann?).
Proving, HPT, sì, ma randomizzati, in cieco, doppio o triplo, sottoposti a test statistici e con controlli placebo. D’altra parte vi sono studi perfettamente in linea sia con i dettami hahnemanniani sia con quelli della ricerca medica ufficiale, che hanno dimostrato che i rimedi omeopatici producono sintomi diversi da quelli del placebo.
Negli ultimi due-tre decenni c’è stato un gran fervore di sperimentazioni omeopatiche: è come se si sentisse la necessità di un progresso in omeopatia e ognuno lo cercasse attraverso la propria cultura. Si sono moltiplicate così metodiche non classiche legate a valori di tradizione orientale/indiana, ma anche americana/new age (‘dream- proving’, ‘meditative-proving’, proving eseguiti durante conferenze ecc.), ma soprattutto trial clinici standardizzati, esperimenti basati su modelli murini e in vitro, review, meta-analisi e quant’altro appartenga alla Evidence Based Medicine della cultura medica tradizionale. In medio stat virtus, chissà: omeopati di tutto il mondo hanno ripreso a eseguire proving classici, utilizzando, in più, strumenti di controllo convalidati dalla medicina ufficiale.
La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, in un rapporto del 2013 intitolato ‘Strategia per le medicine tradizionali’ pone l’accento sulla necessità di favorire la ricerca in questo campo e si barcamena agilmente fra ‘modelli e metodi qualitativi’, ‘un’ampia base di prove capaci di dare informazioni alla politica sanitaria’, ‘progetti comparativi, basati su metodi misti’. Qualcosa, molto, bolle in pentola. L’omeopatia si riappropria, senza paraocchi, della ricerca, sfruttando ciò che di utile possono dare le innovazioni della medicina ufficiale. E la verifica clinica dei dati, come sempre, rimane il punto fondamentale di validazione della metodica. La priorità, a questo punto, è eseguire proving di qualità, uniformati in modo che sia riconosciuta alla ricerca omeopatica classica una legittimità e riproducibilità al passo con i tempi. A questo riguardo le maggiori associazioni internazionali (Liga Medicorum Homeopathica Internationalis e European Committee for Homeopathy) stanno preparando insieme un documento che comprenderà linee guida da seguire nelle sperimentazioni. Ne riparleremo.
Bibliografia
1. Jeremy Y. Sherr, trad. M.L. Gonella, Le dinamiche e la metodologia della sperimentazione omeopatica, Salus Infirmorum, Padova, 2001
2. Witt C., Albrecht H. New Directions in Homeopathy Research, KVC Verlag, Essen, 2009.
3. Möllingen H., Schneider R., Walach H., Homeopathic pathogenetic trials produce specific symptoms different from placebo. Forsch Komplementmed 2009, 16 (2): 105-10.
4. www.who.int/medicines/publications/traditional/trm_ strategy14_23/en/
5. Jansen J.P., Ross A., Homeopathic pathogenetic trials and proving: the need for harmonized guidelines. Homeopathy 2014, 103: 1-2
Magazine Salute e Benessere
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Creato il 30 giugno 2014 da Informasalus @informasalusPossono interessarti anche questi articoli :
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