“L’aeroplano ci ha svelato il vero volto della terra”. (Antoine de Saint Exupery)
Per molti volare è l’unico modo di raggiungere luoghi in cui diversamente non si potrebbe arrivare comodamente e in poco tempo. Per queste persone i velivoli più o meno grandi sono solo un mezzo di trasporto, spesso un male necessario.
C’è chi odia volare, perché ha paura, perché è scomodo, perché soffre di claustrofobia o di crisi d’ansia, perché, soprattutto gli aerei di linea che ti portano in giro per il mondo sono non-luoghi, dove il tempo è sospeso avanti e indietro fra i fusi orari, dove puoi fare poche cose e non puoi stare comodamente né verticale, né orizzontale, né riesci mai ad essere completamente solo. E nemmeno mai libero. Tu non decidi nulla: semplicemente hai comprato un biglietto e devi sottoporti prima e dopo, alla partenza e all’arrivo, ad un sacco di controlli e convenzioni che rifiuteresti in qualsiasi altra occasione.
Io amo volare in ogni modalità, anche in quella del volo di linea: quando mai nella vita quotidiana puoi passare qualche ora seduto, leggere o guardare un film, dormire facendoti cullare dal rollio dei motori o osservando nubi e panorami o addirittura il grigio o il buio, quanto di più vicino al nulla? Ti senti fermo nella condizione illusoria ma gradevole di far parte del cielo e avere il mondo che corre sotto di te, ai tuoi piedi. Vai veloce stando fermo. Questo è il vero tempo del viaggio, perché è come la camera di decompressione in cui tu, sei già partito, hai già lasciato quello che eri, il tuo vivere legato al luogo di partenza, ma non hai ancora trovato il nuovo te, la tua nuova esperienza legata al luogo di arrivo. In volo puoi riflettere e pensare e volendo non essere niente. Mentre l’aereo vola, c’è chi pensa a te, alla tua incolumità, al tuo cibo (se pur non sempre gradevole) al portarti dove vuoi andare mentre tu stessa te la posso dormire. Riesci ad essere in posizione mentale stand-by. Puoi essere solo un passeggero.
A meno che tu non sia il pilota. E qui si apre un mondo. Perché io un pilota l’ho sposato e, se pur non subito, ho imparato cosa significhi per una persona saper volare. “Nessuno è più a terra di un pilota a terra”, esprime, molto correttamente, un detto aeronautico. Perché chi sa volare, chi ha studiato, si è preparato, si è esercitato e finalmente ha provato l’ebbrezza di stare e muoversi nell’aria, è lì che starà bene. La vita a terra sarà sempre un momento di preparazione o desiderio di tornare a decollare. E anche io sono così, anche se so esser solo passeggero.
Daniele Del Giudice
Il volo riesce a coniugare la fiducia razionale nella tecnica e nell’ingegneria, la capacità pratica di far sollevare un pesante mezzo metallico, il rispetto delle regole che ti permettono di volare in sicurezza – e quindi di non mettere a rischio la tua stessa esistenza – con l’immaginazione e il romanticismo di vivere nell’aria, lavorare sospeso, stare fra le nuvole.
Daniele del Giudice, è un docente universitario e scrittore appassionato di volo. Nel 1994 ha scritto “Staccando l’ombra da terra” una serie di brani sul volo, che per lui ha a che vedere con quello spazio che si trova fra anima e probabilità. La sua scrittura trasmette proprio questo. Emerge lo spirito di chi pilota un mezzo aereo: la vita sempre sospesa fra infanzia e ragionevolezza, fra attenzione e abbandono, fra il voler decollare e il dover necessariamente atterrare.
I brani ci parlano dell’esperienza personale di Del Giudice come pilota, ma anche dell’ultimo volo di Antoine de Saint Exupery, partito da Bastia e mai più tornato. Sempre in questo libro si trova “Unreported inbound Palermo”, il brano sul volo Itavia precipitato ad Ustica, testo poi sviluppato insieme a Marco Paolini per la realizzazione dell’opera teatrale di I-TIGI.
La lettura di questo libro, scritto come cronaca ma dal valore letterario di un romanzo, mi ha fatto sentire al tempo stesso un po’ peter pan alla ricerca della propria ombra un po’ più vicino a mio marito e a chi come lui vive staccando l’ombra da terra.
“Staccando l’ombra da terra” di Daniele Del Giudice, Einaudi 1994.
Forse trasformandomi in aeroplano volevo soltanto essere già adulto, perché solo l’illusione di continuità ci permette di credere che il bambino e l’adulto che ne consegue siano la stessa cosa, due stadi della medesima unità, mentre l’infanzia non si sviluppa, cade, semplicemente come i denti da latte, rimpiazzata da un impasto di nuova polpa, trama d’avorio e smalto, simile ma non più la stessa; il bambino e l’adulto sono due diversi generi della natura, due differenti specie e appartenenze (se non altro per quella non definitiva determinazione a sopravvivere che espone gli infanti ad ogni rischio e la cocciuta determinazione a sopravvivere che espone l’adulto ad ogni ridicolo).
Fino al punto di rugiada.
Ti perdesti una mattina in volo come ci si perde nella vita, senza rendersi conto che ci si smarrisce, scivolando a poco a poco nel non trovarsi più … Non è che ci si perda di colpo, ci si comincia a perdere per tempo, in realtà t’eri già perso prima, all’ultimo riporto, quando avevi chiamato l’Ente confermando di essere dove secondo il piano di volo avresti dovuto essere: puro nominalismo, assoluta predominanza del progetto su ogni realtà, dato che non c’eri affatto. A quel punto eri sceso di quota, avevi agganciato una linea ferroviaria, e quando la ferrovia s’era fermata in un paesino avevi fatto un passaggio basso sulla stazione per leggere il nome, ma il nome, preso così in velocità, non t’aveva aiutato granché, ovunque tu fossi eri fuori rotta e risalendo nella foschia perdesti ancora di più l’orientamento fino a trovarti dove sei adesso, cioè dove tu non sai. [...]
La paura è fatta di liquidi che si prosciugano … Era la prima volta che ti perdevi in aereo, senza essere ancora abilitato al volo strumentale, l’avvenimento fu celebrato da una frase che la mente produsse di per sé, la voce la pronunciò alta per suo conto, come la voce di un altro che ti rimproverasse di averlo messo in tale situazione. Per non morire devo salire, pensasti subito, inutile avanzare alla cieca; salgo in spirale sulla verticale di dove sono, se tengo perfettamente il centro della rotazione, se non sbatto al primo o al secondo giro, sono salvo. Hai letto sulla carta le quote delle alture più probabili, aggiungendo mille piedi per sicurezza e cominciando a salire verso i cinquemila; in pieno cielo opaco, in uno spazio infinito, ti rinchiudevi nel cilindro di salvezza costituito dal tuo volare in cerchio, lenta escavazione verso l’alto nella nebbia filamentosa. Intorno tutto era denso di minacce invisibili, ad ogni giro riducevi il raggio per ridurre i pericoli, almeno speravi, e ogni giro non finiva mai. La nebbia era una nube infeconda, così la pensava Aristotele, non fidatevi del suo carattere avvolgente, pervadente, quell’acqua è solo umidità, non è pregnanza di pioggia che feconda i campi e gonfia il corso dei fiumi. La nebbia è arredamento, la nebbia si appoggia: sui campi, e nello spazio tra terra e cielo, sterile, buona per delitti. Inconsapevoli, ad essa indifferenti. Ma sono delitti quelli che commette.
Manovre di volo
Il nord è il nord, sebbene non il solo, ma è un semplice riferimento, ogni grado della bussola gode di pari dignità, qualunque punto della terra è contemporaneamente origine e fine del viaggio, capovolto di volta in volta e all’occasione. Se potessi accettare che quel che conta è solo il tratto, anzi la tratta come tu chiami il percorso, senza nostalgie della partenza né dell’arrivo; oppure sapere che partenza e arrivo possono essere la stessa cosa, coincidere. … In volo oramai mi riesce ben, ma nella vita? Io continuo a guardare di petto in modo frontale, restando schiacciato dalla visione, fissandola attonito, così che una sola scena o un ricordo o un’ossessione ingombra tutto il campo visivo; da qualche parte c’è sicuramente una periferia dello sguardo da dove tutto può ricondursi alla sua misura, una manovra degli occhi aggira e rimette in proporzione, ma per me è difficile trovarla.
Antoine de Saint Exupery
Doppio decollo all’alba.
Quelli, oltre a lui (Antoine de Saint-Exupéry), sono Guillaumet e Mermoz, piloti in un’epoca in cui la meteorologia era un’arte divinatoria, i motori piantavano senza preavviso, si udiva un rumore di porcellane infrante e le eliche si fermavano, i rilevamenti a terra erano inesistenti e la regola, non scritta ma passata di bocca in bocca, era quella che il capo scalo confidò a Saint-Exupéry alla vigilia del suo primo volo postale: è molto bello navigare a bussola, in Spagna, molto elegante, ma si ricordi, sotto i mari di nuvole non c’è altro che l’eternità̀.
L’aereo non è come la nave che trasferisce le leggi morali della terraferma in una giurisdizione autonoma e ristretta, mettendole alla prova in modo estremo, l’aereo non conserva nulla della terra e della casa, in una nave si dorme, si ozia, si trama, c’è il tempo lungo della bonaccia, le attese afose nei porti, in aereo non c’è nulla delle consuetudini quotidiane, le sole regole che valgono sono regole dell’aria, regole operative. Si commettono errori, ma quasi sempre di ordine tecnico, difficilmente di ordine morale. Perché l’animo umano possa svelare la propria tenebra, per l’abiezione e le bassezze, ci vuole spazio, ci vuole tempo, e nell’aereo c’è troppo poco dell’uno e dell’altro, insomma, in volo si è temporaneamente privati del proprio Male che tace allibito di fronte alla proceduralità̀ del tutto. Nel volo anche se uno si sforza di tirar fuori il peggio di sé è implacabilmente condannato a una certa nobiltà di spirito.
Eh si, volo basso lungo la costa, Bastia è già in vista, l’operatore alla torre è una donna, parla l’unico inglese aeronautico comprensibile in Corsica. Faccio giravolte. Sono contento. No, il mito non c’entra nulla. Il volo ha avuto a che fare col mito finché non è stato umanamente realizzabile. Una volta inventato l’aeroplano, c’è una sola cosa al mondo con cui il volo è veramente connesso, ed è l’infanzia. I piloti non hanno ali piumate, non sono angeli e tanto meno eroi, sono bambini adulti, bambini nascosti, ben custoditi nella loro maturità, ben conservati dentro una delle imperturbabili professionalità che la vita ha loro assegnato, ma legati all’infanzia con un elastico da fionda che gli sbuca dalla tasca. Se poi tra l’infanzia e la morte c’è uno speciale rapporto, non saprei dire.