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La pagina della Cover Writer: Stoner di John Williams

Creato il 10 maggio 2014 da Lundici @lundici_it

C’è una frase di Emmanuel Carrère su Limonov (il poeta – scrittore politico russo su cui ha scritto il libro omonimo http://www.lundici.it/2013/07/la-pagina-della-cover-writer-limonov-di-emmanuel-carrere) che dice che Limonov non era un romanziere: sapeva raccontare solo la sua vita. E la sua vita vera era ed è così avventurosa, violenta, passionale, russa, densa, immensa e immersa negli avvenimenti della storia che è sufficiente per essere letta come un romanzo. Questo assunto è condivisibile al 100%. Le storie di e su Limonov sono mozzafiato, saperle raccontare è segno di capacità narrativa. Ma è il contenuto che ti inchioda.

John Williams

John Williams

Per John Williams e il suo “Stoner” è l’esatto contrario. La domanda che ti poni, quando prendi in mano questo romanzo e leggi di cosa parla è: perché leggere la storia di un uomo del Midwest degli Stati Uniti, dalla vita piatta, figlio di agricoltori, iscrittosi all’università a 150 chilometri da casa nel 1910, dove, ottenuto un incarico per insegnare 8 anni dopo, lì rimase fino alla morte nel 1956″?

Perché è un capolavoro.

John Williams, classe 1922, fece uscire questo romanzo nel 1965, l’anno in cui sono nata. Eppure la sua scrittura perfetta non ha subito i segni del tempo. L’autore è un vero romanziere. Si rimane sbalorditi dalla bellezza della storia e dalla sua capacità di raccontarla. Come trovare un tesoro occultato fra cose banali, semplici, consuete. Con chiarezza, semplicità, mette a fuoco una realtà quotidiana, pur complessa e profonda, ci racconta una vita che sembra qualunque, ma che è vita vera proprio perché è l’esistenza di un personaggio con tutte le sue verità ed interrogativi. Ci mette davanti a pensieri e dilemmi che ci attanagliano ogni giorno e lo fa con una scrittura perfetta e un amore per l’intreccio che rare volte si incontrano.

Stoner non viaggia, non lascia mai la stessa zona per tutta vita, non lascia mai i suoi studi e la lettura, attraversa gli sconvolgimenti storici del suo tempo (la prima guerra mondiale, la crisi del 1929, la seconda guerra mondiale), un matrimonio fallimentare, un rapporto complesso con la figlia, l’incontro con la passione sentimentale in età avanzata, scegliendo sempre il non cambiamento. Un percorso commuovente, supportato da un amore per la scrittura e la letteratura che traspaiono in ogni passo.

Per me, se pur donna e tanto diversa dal protagonista, è stato immediato immedesimarmi e affezionarmi a questo personaggio letterario.

“E la verità è che si possono scrivere dei pessimi romanzi su delle vite emozionanti e che la vita più silenziosa, se esaminata con affetto, compassione e grande cura, può fruttare una straordinaria messe letteraria.” Peter Cameron, postfazione al romanzo.

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“Stoner” di John Williams, Fazi Editore, 2012.

Il passato sorgeva dalle tenebre e i morti tornavano in vita di fronte a lui, e insieme fluivano nel presente, in mezzo ai vivi, tanto che per un istante aveva la percezione di stringersi a loro in un’unica, densa realtà, da cui non poteva e non voleva sottrarsi. Tristano e la dolce Isotta gli sfilavano sotto gli occhi; Paolo e Francesca vorticavano nel buio incandescente; Elena e Paride, amareggiati dalle conseguenze del loro gesto, spuntavano dal buio. E Stoner li sentiva più vicini dei suoi stessi compagni, che si spostavano da una classe all’altra, alloggiando presso una grande università a Columbia, nel Missouri, e che camminavano distratti nell’aria del Midwest … Aveva scoperto che quelle colonne erano i resti del corpo originario dell’università, distrutto molti anni addietro da un incendio. Verdi e argento alla luce della luna,, nude e pure, gli sembrava che rappresentassero la vita che aveva scelto, proprio come un tempio rappresenta un dio.

… Prima dell’inizio dell’autunno, la guerra (La Prima Guerra Mondiale, ndr) era scoppiata in tutta Europa.Tra gli studenti era un argomento di conversazione continuo: tutti si chiedevano che ruolo avrebbe avuto l’America e quale emozionate futuro li attendesse. Per William Stoner, invece, il futuro era una certezza fulgida e immutabile. Ai suoi occhi non appariva come un flusso di eventi, mutazioni e potenzialità, ma come un territorio che attendeva di essere esplorato. Gli sembrava simile alla grande biblioteca dell’università, che poteva essere arricchita dalla costruzione di nuove ali, cui potevano aggiungersi nuovi libri o tolti i vecchi, ma che manteneva essenzialmente invariata la sua vera natura. Immaginava il suo futuro solo nell’istituzione a cui si era votato, e che comprendeva in modo imperfetto. Non escludeva di poter cambiare in quel futuro, ma considerava il futuro stesso come lo strumento, piuttosto che l’obiettivo, del cambiamento.

“Non credere di scappare. Amico mio. Ora tocca a te. Chi sei tu, veramente? Un umile figlio della terra, come ti ripeti davanti allo specchio? Oh, no. Anche tu sei uno dei malati: sei il sognatore, il folle in un mondo ancora più folle di lui, il nostro Don Chisciotte del Midwest, che vaga sotto il cielo azzurro senza Sancho Panza. Sei abbastanza intelligente, di certo più del nostro comune amico. Ma in te c’è il segno dell’antica malattia. Tu credi che ci sia qualcosa qui, che va trovato. Nel mondo reale scopriresti subito la verità. Anche tu sei votato al fallimento. Ma anziché combattere il mondo, ti lasceresti masticare e sputare via, per ritrovarti in terra a chiederti cos’è andato storto. Perché ti aspetti sempre che il mondo sia qualcosa che non è, qualcosa che non vuole essere. […] Non riusciresti ad affrontarli, a combatterli: perché sei troppo debole, e troppo forte insieme. E non hai un posto al mondo dove andare”.

… (Il preside) “Allora deve fare una scelta, e dovrà farla per sé. Inutile dirle che se deciderà di arruolarsi, al suo ritorno verrà reintegrato nella posizione attuale. Se invece deciderà di non arruolarsi, potrà restare qui. Naturalmente senza alcun vantaggio particolare. anzi è possibile che vada incontro a qualche difficoltà, sia adesso che in seguito.
“Capisco”, disse Stoner.
“Deve ricordare chi è e chi ha scelto di essere, e il significato di quello che sta facendo. Ci sono guerre, sconfitte e vittorie della razza umana che non sono di natura militare e non vengono registrate negli annali della storia. Se ne ricordi al momento di fare la sua scelta.”

… quando sollevò la maniglia della cassa … il peso gli sembrò così lieve che non riusciva a credere che in quella scatola lunga e stretta vi fosse qualcuno. … Sloane non aveva famiglia. … Fu Stoner a piangere quando la bara venne calata nella fossa, come se il pianto potesse attenuare la desolazione di quella discesa. Se piangesse per se stesso, per quella parte della sua storia e della sua giovinezza che finiva sotto terra, o per la povera figura smunta appartenuta un tempo all’uomo che aveva amato, non lo sapeva.

Trovandoci, come siamo, al cospetto del mistero della letteratura e del suo inenarrabile potere, è nostro compito scoprire la fonte di questo potere e di questo mistero. E in fondo, tuttavia, a che scopo? La letteratura stende davanti a noi un velo profondo, che non possiamo scandagliare. Non ci resta che contemplare le sue oscillazioni, devoti e impotenti. Chi sarebbe così temerario da sollevare quel velo, mostrando ciò che non può essere mostrato e raggiungendo l’irraggiungibile? Il più forte di noi non è che un esserino gracile, il tintinnio d’un cembalo, il fiato d’un ottone, davanti all’eterno mistero.

Di tanto in tanto, durante le lezioni, si ritrovava così immerso negli argomenti che non solo si dimenticava della sua inadeguatezza, ma anche di se stesso e perfino degli studenti che aveva davanti. A volte veniva così preso dall’entusiasmo che balbettava, gesticolava, e ignorava gli appunti che di solito guidavano le sue spiegazioni. All’inizio quelle esternazioni lo infastidivano, quasi tradissero un’eccessiva familiarità con la materia e se ne scusava con gli allievi. Ma quando quelli cominciarono ad andare da lui dopo le lezioni e a mostrare, nelle esercitazioni scritte, tracce di immaginazione e di crescente entusiasmo, si sentì incoraggiato a fare quello che nessuno gli aveva mai insegnato … L’amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò a esprimersi dapprima in modo incerto, poi con coraggio sempre maggiore. Infine con orgoglio.

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Sentiva che finalmente cominciava ad esser un insegnante, ovvero un uomo che semplicemente dice quel che sa, traendo dalla sua professione una dignità che ha poco a che fare con la follia, o la debolezza, o l’inadeguatezza dei suoi comportamenti privati. Era la consapevolezza che non poteva esprimere, ma che, una volta acquisita, faceva di lui un uomo diverso al punto che nessuno poteva più evitare di accorgersene.

Andava un po’ a caso, a seconda delle sue preferenze e delle sue inclinazioni, scegliendo tra i libri che aspettava di leggere da anni. Ma la sua mente non si lasciava condurre dove avrebbe voluto: spesso si distraeva dalle pagine che aveva davanti, ritrovandosi a fissare il vuoto che aveva davanti inebetito. Quasi che la sua mente, un istante dopo l’altro, venisse svuotata di ogni conoscenza e la sua volontà prosciugata di ogni energia. A volte gli sembrava di essere una specie di vegetale e sperava che qualcosa – anche il dolore – lo trafiggesse, per riportarlo in vita.

Era arrivato a un’età in cui, con intensità crescente, gli si presentava sempre la stessa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva gli strumenti per affrontarla. Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta. Se mai lo fosse stata. Sospettava che alla stessa domanda, prima o poi, dovessero rispondere tutti gli uomini. Ma si chiedeva se, anche agli altri, essa si presentasse con la stessa forza impersonale. La domanda portava con sé una tristezza, ma era una tristezza diffusa che (pensava) aveva poco a che fare con lui o con il suo destino in particolare. Non era neanche sicuro che essa sorgesse dalle cause più ovvie e immediate, ovvero da ciò che la sua vita era diventata. Sorgeva secondo lui, dall’accumularsi degli anni, dalla densità dei casi e delle circostanze e dalla comprensione che era riuscito ad avere. Provava un piacere triste e ironico al pensiero che quel poco di conoscenza che si era conquistato l’avesse condotto a tale consapevolezza e che alla lunga tutte le cose – perfino ciò che aveva imparato e che gli consentiva quelle riflessioni – erano futili e vuote, e svanivano in un nulla che non riuscivano ad alterare.

A quarantatré anni compiuti, William Stoner apprese ciò che altri, ben più giovani di lui, avevano imparato prima: che la persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e che l’amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra.

Quand’era giovanissimo, Stoner pensava che l’amore fosse uno stato assoluto dell’essere a cui un uomo, se fortunato, poteva avere il privilegio di accedere. Durante la maturità, l’aveva invece liquidato come il paradiso di una falsa religione, da contemplare con scettica ironia, soave e navigato disprezzo, e vergognosa nostalgia. Arrivato alla mezza età, cominciava a capire che non era né un’illusione né uno stato di grazia: lo vedeva come una parte del divenire umano, una condizione inventata e modificata momento
per momento. e giorno dopo giorno, dalla volontà, dall’intelligenza e dal cuore.

Anni dopo, in certi strani momenti, gli sarebbe accaduto di ripensare ai giorni che seguirono la sua conversazione con Gordon Finch, senza riuscire a ricordarli con chiarezza. Si sentiva come morto, animato solo dalla consuetudine di una volontà indefessa. eppure era cosciente di sé e dei luoghi, delle persone e degli eventi che gli scorrevano davanti in quei pochi giorni e sapeva di mantenere agli occhi degli estranei un contegno che dissimulava la sua condizione.

William Stoner, abituato a quell’espressione come all’aria che respirava, vide i segni diffusi di uno sconforto che aveva conosciuto fin da bambino. Vide uomini per bene sprofondare lentamente nella disperazione, perduti insieme ai loro sogni di una vita decente. … E vide che alcuni, un tempo fieri della propria identità, ora lo guardavano con odio e invidia per quel minimo di sicurezza che si era costruito col suo impiego fisso presso un’istituzione che, in un modo o nell’altro, non sarebbe mai potuta fallire. Non dava mai voce a questa consapevolezza, ma la coscienza di quella miseria lo toccava profondamente, trasformandolo in un modo che era invisibile agli estranei; e una tristezza per quella condizione comune lo accompagnava in ogni istante della sua vita.

Non riusciva a pensarsi come vecchio. Certe volte, la mattina, quando si faceva la barba, guardava lo specchio e non si riconosceva affatto in quel viso che ricambiava stupito il suo sguardo … Eppure l’età non era una finzione. Aveva visto la malattia del mondo e del suo paese, negli anni che seguirono la Grande Guerra. Aveva visto l’odio e il sospetto trasformarsi in una sorta di follia che sferzava la terra come una piaga fulminea. Aveva visto i giovani andare in guerra, bramosi di mettersi in marcia verso un destino insensato, come l’eco di un incubo. E la pietà e la tristezza che provava erano così antiche, così legate alla sua vecchiaia che gli sembrava di essere intonso.

Può capitare che qualche studente, imbattendosi nel suo nome, si chieda indolente chi fosse, ma di rado la curiosità si spinge oltre la semplice domanda occasionale. I colleghi di Stoner, che dal vivo non l’avevano mai stimato gran che, oggi ne parlano raramente; per i più vecchi, il suo nome è il monito per la fine che li attende tutti, per i più giovani è soltanto un suono, che non evoca alcun passato o identità particolare …

 


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