“Perfer et obdura, dolor hic tibi proderit olim.” - Sii forte e paziente, un giorno questo dolore ti sarà utile. Ovidio.
Riprendendo in mano i due libri di Peter Cameron che ho letto, “Quella sera dorata” – “The city of your final destination” 2002 – uscito in Italia nel 2006 da Adelphi (80.000 copie vendute, un trionfo) e “Un giorno questo dolore ti sarà utile” Adelphi nel 2007, poi uscito nello stesso anno col titolo “Someday This Pain Will Be Useful To You”, mi sono resa conto di 3 cose.
1 – Li avevo letti, a distanza di un anno l’uno dall’altro, iniziandoli nel primo giorno di ferie d’agosto.
2 – Mi erano piaciuti e rileggendoli mantenevano intatto il senso di piacere.
3 – Avevo ancora ben chiara sia la trama che le frasi salienti.
Eppure la prima parola che mi è venuta in mente è INNOCUO. In realtà li avevo scelti come libri per le vacanze proprio per questo: perché lievi ma profondi, con protagonisti giovani carini e un po’ problematici. Ma solo un po’, dove il dolore, anche quello citato nel titolo è certamente poco “doloroso”, non tragico.
Per me è stato il grosso pregio di entrambi i libri. Perché è bello ogni tanto leggere storie semplici, ma non banali, scritte egregiamente, piene di spunti su percorsi interiori e relazioni umane che ti facciano ripensare all’inconcludente gioventù e adolescenza. Sono libri che ti fanno star bene senza farti sentire superficiale.
Cameron ha scelto la frase di Ovidio come motto di un atroce campo estivo per giovani americani agiati ma disadattati, luogo di pena per James Sveck, 18 anni, newyorkese problematico. Da qui il titolo del libro.
James, il protagonista, è stato salutato come un nuovo “Il giovane Holden”, perché in entrambi i casi si parla di New York, di adolescenti inquieti, di fughe e assoluta incapacità di relazionarsi e di mettersi a fuoco nel mondo degli adulti. Di Holden Caulfield, il primo adolescente letterario che sente di dover portare sulle proprie spalle il disagio suo e del mondo, di vivere qui ed ora, a James manca tutta la parte di curiosità e universalità del dolore. Il giovane Sveck è completamente chiuso a qualsiasi cosa d’altro che non sia la sua difficoltà, l’unicità del suo disagio.Central Park New York
James è un adolescente 2.0 e la sua famiglia, esclusa la nonna, è molto sopra le righe, sembra uscita più da un telefilm che da una quotidianità contemporanea. Quello che accomuna questi due autori americani, Cameron e Salinger, è un tipo di scrittura in cui l’io narrante è un adolescente che, in prima persona, parla, esprime concetti personali, agisce e racconta. In entrambi i casi senti che quel ragazzo sei tu, che lo sei stato, che avresti potuto esserlo o che avresti voluto essere. Ma sono ragionamenti adulti, soprattutto per James, che forse un teen-ager trova meno interessanti, perché si sente ancora così. Tutto sommato la storia, l’intreccio non sono importanti, anche se di cose ne succedono. Quindi la parte migliore del romanzo è proprio la scrittura adatta a rendere percepibile il percorso interiore di James, sempre alla ricerca della possibilità di non fallire nel tradurre quello che pensa in quello che dice.
Da “Quella sera dorata” Ivory ha tratto un film con Anthony Hopkins. Il 24 Febbraio esce, invece il film di Roberto Faenza tratto da “Un giorno questo dolore ti sarà utile”.
Siccome penso che la leggerezza sia un pregio, ma che sia a volte parente dell’inconsistenza, non ho visto il film di Ivory e non so se vedrò quello di Faenza, perché in fondo la cosa migliore di entrambi i libri è come l’autore li ha scritti e mi dispiacerebbe non ritrovare questa capacità nelle immagini. Chissà come potrà essere tradotta in film. Io questo autore preferisco leggerlo.
Da “Un giorno questo dolore ti sarà utile” di Peter Cameron, Adelphi 2007.
… Il problema principale è che non mi piace la gente, e in particolare non mi piacciono i miei coetanei, cioè quelli che popolano l’università. Ci andrei volentieri se ci studiassero persone più grandi. Non sono uno psicopatico (anche se non credo che gli psicopatici si definiscano tali), è solo che non mi diverto a stare con gli altri. Le persone, almeno per quel che ho visto fino adesso, non si dicono granché di interessante. Parlano delle loro vite e le loro vite non sono interessanti. Quindi mi secco. Secondo me bisognerebbe parlare solo se si ha qualcosa di interessante o di necessario.
…La Adler mi aveva detto di dire sempre quello che mi passava per la testa, ma per me era difficile, perché per me l’atto di pensare e quello di esprimere i pensieri non sono simultanei e neppure necessariamente consecutivi. So di pensare e di parlare nella stessa lingua, e so che in teoria non c’è ragione per cui io non possa comunicare i miei pensieri appena si formano o immediatamente dopo. Eppure la lingua in cui penso e quella in cui parlo sembra spesso talmente lontane che mi pare impossibile colmare il vuoto sul momento o anche retroattivamente. … Credo che nel mio cervello ci sia un setaccio che impedisce un rapido (e tantomeno simultaneo) travaso di parole. Un po’ come il filtro nello scarico della vasca da bagno. C’è qualcosa che trattiene i pensieri nel cervello e così bisogna cavarli a forza, come quegli schifosi grovigli di capelli bagnati.
… Quello che non sapeva, però era che la storia della donna scomparsa, non mi faceva tristezza affatto, non mi sembrava una cosa tragica lasciare questo mondo senza rumore. Anzi, mi pareva bello morire così, sparire senza lasciare traccia, sprofondare senza disturbare la superficie dell’acqua, senza neppure una bollicina che venga a galla, come filarsela da una festa alla chetichella.
L'edizione greca
… pensavo: mi basta averlo pensato, non ho bisogno di dirlo. Non ho bisogno di condividere il mio pensiero con qualcuno. Quasi tutti pensano che le cose non siano vere finché non sono state dette, che sia la comunicazione non il pensiero a dare legittimità. È per questo che la gente vuole sempre che gli si dica “ti amo e ti voglio bene”. Per me è il contrario: i pensieri sono più veri quando vengono pensati, esprimerli li distorce o li diluisce, la cosa migliore è che restino nell’hangar buio della mente, nel suo clima controllato, perché l’aria e la luce possono alterarli come una pellicola esposta accidentalmente.
… “Non so bene cosa succede fra due persone, … anzi dovrei dire cosa succeda?”
“Non credo abbia importanza.” Ha detto lei.
“ Certo che ha importanza” le ho risposto. “Il congiuntivo è più giusto e a non farci caso, si fa …”.
“Si fa cosa?”
“Si fa del male al mondo. Sono piccole cose così, come usare la lingua in modo corretto, che lo fanno funzionare. Funzionare bene. Se ci lasciamo andare, sprofonda tutto nel caos. Gli errori come questi sono come piccole crepe nella diga, all’inizio pensi che non siano importanti, ma poi i propri errori e quelli degli altri si accumulano e allora sì che lo diventano”.
Peter Cameron a Roma
… Sono rimasto zitto. Aveva ragione e lo sapevo, anche se questo non cambiava nulla. La gente pensa che, se riesce a dimostrare di avere ragione, l’altro cambierà idea, ma non è così.
“James è probabilmente il personaggio che mi somiglia di più, intendo dire che è quello più vicino al mio modo di vedere e percepire le persone e il mondo. Naturalmente c’è sempre qualcosa di me nei miei personaggi ma James è qualcosa che va oltre. Forse è proprio grazie alla connessione che ho con lui (come personaggio) se risulta essere così reale.” Intervista a Peter Cameron su Mangialibri – www.mangialibri.com