L'insofferenza nei rapporti critici, logora ogni gesto quotidiano o ne rivela soltanto la banalità?
Il senso di unicità delle cose fatte insieme, lo avevamo smarrito insieme?
Ma alla fine che importanza poteva avere?
Seduto su una panchina del Parco delle Basiliche, mi ponevo tutti questi interrogativi, col solo risultato di procurarmi un mal di testa, il vento soffiava leggero, e mi portava il vaggito di un neonato che evidentemente aveva fame.
Pensai, che anche gli amanti hanno piena fiducia che i loro bisogni vengano soddisfatti da una persona che sappia quanto vitale sia quel nutrimento. Bene, come madre ero un disastro, e come amante negavo il nutrimento all'uomo che dicevo di amare. Un colpo di pallone mi scosse dalla mia allucinazione.
Eppure avrei dovuto alzarmi e andare a ringraziarli, quei ragazzi, mi avevano reso chiaro quale fosse il vero problema nel mio rapporto.
In realtà, io amavo chi diceva di amarmi. Ecco quindi che, se anche il modo in cui venivo amato fosse stato malsano, io non potevo più non corrisponderlo. Un interruttore nella mia mente, si attivava dopo aver udito la frase "Ti amo", imponendomi di non gettare via quell'occasione.
Il mio cuore poppante e affamato non si poneva interrogativi sui "propri" sentimenti, ma assolveva alla necessita primaria di "nutrirsi e ringraziare".
Ma un simile pensiero illuminante avrei mai potuto concepirlo, ai giardini della Doria( giardinetti genovesi attigui al ricovero per anziani)?
Mi alzai e andai al mitico bar Rattazzo, per bere un caffè e brindare frugalmente alla scoperta del mio ennesimo "refuso educativo".
Non sentii Claudio, per tutto il fine settimana, ma la domenica fu lui a spezzare la cortina gelida che si era instaurata in casa, dicendomi:
-
Hai un'altro?-
-
Sì - risposi, ben sapendo che marco non c'entrava nulla.
-
Cazzo, lo sapevo - rispose saltando dalla sedia, e cominciò ad infilare una serie di domande
sul come, sul quando, ma niente sul perché.
Le reazioni emotive violente non erano una novità per me, a casa dei miei ne avevo viste a bizzeffe, e sapevo mantenermi calmo, sapevo anche, che l'altro non intende ragioni in quel momento sequestrato com'è dalle proprie paure, ma mi chiedevo dove saremo andati a parare. L'atteggiamento minaccioso di quell'uomo non mi spaventava pur non essendo del tutto prevedibile, avevo fiducia che non mi avrebbe fatto del male, ma per non correre rischi gli dissi che sarei uscito.
Scendendo le scale, l'ineffabile Teresa illumino l'occhiolino della porta, e capii che ero pronto per un trasloco.
Quando tornai c'era silenzio, quel silenzio, le ante dell'armadio erano aperte ed una camicia di seta, giaceva afflosciata sul pavimento, come se avesse cercato disperatamente di non essere abbandonata, ma alla fine si fosse arresa. La tirai su, e l'avvicinai al naso, il suo profumo era accennato ma intenso. Strisi quella camicia come avrei dovuto fare col suo proprietario ormai già lontano in autostrada. Un biglietto in cucina diceva "non aspettarmi non tornerò".
Erano le undici, ma la casa vuota si riempì dell'aroma di un caffè, quando suonò il campanello.
-Sono teresa!- disse una vocina insolitamente garbata.
_ Venga, ho appena fatto il caffé- risposi aprendo la porta come se fosse normale.
To be continued