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La pandemia gialla non se n’è mai andata

Creato il 30 agosto 2012 da Elgraeco @HellGraeco

Più o meno un anno e mezzo fa, chiudevo la mia avventura col Survival Blog svolto online. Dal 26 Novembre 2010 al 5 Febbraio 2011. Lo facevo con queste parole:

Siete come cervi.
Sbrigatevi a crepare.

La pandemia gialla non se n’è mai andata

E con questa musica, invitando a schiacciare il tasto Play.
Perché Hell, all’epoca il mio alter-ego, era un sopravvissuto, non un buonista. E l’unica cosa che desiderava era poter troncare i contatti con tutti quei disperati che, durante la Pandemia Gialla, ancora s’affannavano a scrivere online. Scrivere puttanate, retorica della sopravvivenza, del bel tempo che fu, delle cose belle che non ci sono più, dato che, lì fuori, c’erano solo orde d’infetti assassini. E città abbandonate.
Niente più comunicazione, in un mondo in cui le distanze sono tornate a essere medievali, insormontabili, in cui un semplice mal di denti ti può ammazzare, in cui l’aspettativa di vita s’è abbassata. Un sacco.
Non sono stato l’unico, in queste settimane, a parlare del Survival Blog. Altri toni, altre faccende.
Eppure, il prione infettivo c’è sempre, scorre potente, come la scrittura che, da quel 26 Novembre, scaturì.
Non posso dimenticare, di tutto quel periodo, una realtà: eravamo cinquanta e più, ognuno col proprio blog. Vennero aperti blog da chi, fino a quel momento, s’era limitato a essere spettatore passivo di internet, e decise di diventarne protagonista.
Fu la cosa più bella.
Siamo al 2012, e i vecchi partecipanti hanno continuato, in tempi e modi diversi, a scrivere della Pandemia Gialla. In questa pagina e in quest’altra sul blog di Alex, trovate tutto ciò che può servire a farvi un quadro completo di ciò che è il Survival Blog, a tutt’oggi.
Ma sono qui per comunicare ancora due cose.
La prima è che ieri ho saputo che c’è un’altra partecipante che ha deciso di inscenare la pandemia sul proprio blog, e di fare un eBook consuntivo, alla fine. È Queenseptienna. Questo il post in cui c’è l’annuncio. Vi invito a leggere, anche perché sembra, dai commenti, che ci sia almeno un ulteriore aspirante survivalista. Perciò stay tuned.
La seconda è che ho deciso di farvi un piccolo regalo.
Non so dove siano Hell e Zooey, in questo momento, ma so dov’erano il 26 Aprile 2013.

***

Il passo che segue sarà il prologo di un nuovo eBook del Survival Blog, intitolato Carrick-on-Suir. Ve ne avevo già parlato. Non so quando lo completerò, ma lo farò.
Se volete sapere cosa è successo ai protagonisti prima e dopo il 26 Aprile 2013, vi basta leggere la mia Ragazza, scaricabile QUI (anche in PDF).
Carrick-on-Suir, per gli amici CoS, conterrà avvenimenti diversi.
Buona lettura, per ora. Molto graditi i commenti, in questo caso. E, se avete voglia di partecipare al Survival Blog, vi basta iniziare a scrivere, e tenere presente l’ambientazione generale.

AVVERTENZE: il testo contiene scene violente e scene di sesso. Non leggete, se siete anime candide.

Prologo

26 Aprile 2013

Lily è alta e rossa, la pelle candida punteggiata d’efelidi. Le aureole piccole e strette intorno ai capezzoli terra di siena. In posa educata, gambe chiuse e mani in grembo, sul divano antico color oro nel salone di casa. Sul cuscino accanto è distesa una donna, mora di capelli; non riesco a scorgere altro. S’accarezza.
Il formicolio nelle gambe. Faccio cenno a Lily* di avvicinarsi. Obbedisce, docile e lenta. Ancheggia.
Mi gira intorno, senza far rumore. Accanto a me un altro divano, dai cuscini rossi. Ci si siede, solleva e allunga i piedi, li posa sulle mie ginocchia…

La melodia di Coconut nelle orecchie, strozzata. Esce dai forellini sul retro della sveglia-lattina. Inconfondibile. Odiosa.
Un regalo di Zooey. A modo mio, ci sono affezionato. Per questo è ancora lì.
Impreco a mezza bocca.
Profumo di lenzuola pulite. Di shampoo alla vaniglia. Di lei, che s’è fatta la doccia prima di dormire e m’ha tenuto sveglio col phon, per mezz’ora. Smanaccio alla cieca verso il comodino. La sveglia cade. Alla canzone si unisce il rumore dei colpetti che fa il fusto, ancheggiando ritmico contro il legno. La immagino agitare i fianchi da distesa, la cazzo di lattina, con gli occhi languidi da cartone animato e lo smile fisso. Giallo. Non proprio un tonico, per iniziare le giornate tutte uguali.
Apro gli occhi. Palpebre pastose. Le tacche di luce che bucano la persiana sono appannate. Li stropiccio.
Lei grugnisce. Si rigira e tira la trapunta addosso, coprendosi tutta.
La lattina cade, Coconut perde una nota e storce la successiva, continua a sbattere per terra, ma non smette.
La lascio lì, do un’occhiata alla porta. È chiusa. Quel poco di luce si riflette sulla barra di metallo inserita tra l’anta e lo stipite.
Mi alzo e vado nel bagno. Dalla camera, arriva la sua voce. Protesta.
Sollevo l’angolo destro della bocca, salgo nel piatto doccia e sollevo il dosatore dal lato blu. Bestemmio e respiro forte. Lascio che l’acqua scivoli abbondante sulla faccia. Sputo.
Mi viene da pisciare.

Sgabello scendiletto, con l’imbottitura blu scuro, piazzato nel corridoio. Mi sporgo dalla ringhiera che dà sulle scale e resto ad ascoltare per un po’ il buio che colma il piano di sotto. Niente.
Mi isso, agguanto tra pollice e indice e tiro la cordicella della botola per la terrazza. Stringo gli occhi per il troppo sole. È caldo, sulla guancia. Dispiego la scaletta.
Fuori, il cielo è sgombro, il sole malato. Inghilterra…
Mi affaccio alla balaustra, osservo distratto le villette alla destra e poi guardo giù, verso la porta d’ingresso, sul prato. L’erba è arrivata a una ventina di centimetri.
I giardinieri sono stati potati… Tagli alle spese. Le safety-zone si sono rivelate costose, più di quanto preventivato.
C’è il barboncino bianco, scodinzola isterico, il pomello attorcigliato che ha al posto della coda batte velocissimo, facendolo sculettare. È sporco di sangue intorno alla bocca e sulle orecchie lanose. Sono lerce. Merda.
Osservo i prati accanto, in cerca di… qualcosa. Niente rosso, solo verde. Poi di nuovo il cane. Abbaia al mio indirizzo, solleva il mento e scuote la testa all’indietro. Sì, ce l’ha proprio con me.
Gli mostro il medio. Abbaia ancora, più stizzito. Mi scappa da ridere.
Do uno sguardo intorno, oltre i tetti della Zona 013, verso Londra. Si alza del fumo nero. In almeno tre punti. Sono sirene, quelle che sento. Molte, almeno una decina. Caccio un lungo sospiro.
Rientro.
Di nuovo in camera da letto. M’infilo i pantaloni, poi passo al maglione.
«There’s a dog, out there?» chiede, con la vocina impastata in un gemito.
«Yep.»
«Shoot it.»

Il pianoterra è sempre al buio. Prima di scendere prendo il ferro 3 di Richard e sto lì in cima alle scale ad aspettare. Poi lo stringo e vado giù.
Mi fermo alla fine della rampa, alla ricerca di luce imprevista. O d’un respiro.
L’ultimo che ho sentito era quello di Jane, messa sul sofà. Coi bagagli poggiati alla rinfusa, accanto. Mi ha guardato. O forse fissava il muro dietro di me.
Il barboncino continua a starnazzare.
Zooey domanda ogni tanto se Richard e Jane ce l’hanno fatta a scappare, secondo me. Le rispondo di sì. Non mi crede.
Corridoio. Il sofà è vuoto. Ci poso il ferro 3.
Porta d’ingresso intatta. Controllo i chiavistelli extra. Ne ho aggiunti quattro, oltre alla serratura a tubi d’acciaio. Niente blindatura, a proteggerci basta Sua Maestà Cameron.
Ho sentito che un tizio è stato arrestato per averlo chiamato così, Maestà, davanti alle telecamere. Immagino la scena. Sghignazzo.
In salone, accendo la TV. Sulla BBC c’è Tiger Woods, cappellino e maglietta amaranto. Una delle sue amanti è diventata gialla. È stata rinchiusa, ma c’è “la speranza che guarisca con la nuova cura sperimentale a cui è stata sottoposta”. Certo, certo…
Afferro la scheda magnetica contraffatta e la inserisco nel decoder. Si riesce a vedere un canale francese, ***; trasmettono da una piattaforma petrolifera protetta da due corazzate, fregandosene della censura del Re.
Hanno un ponte mobile con Londra. Si pensa che i giornalisti si nascondano dalle zone infette, barricati chissà come. Sconsigliabile sprecare uomini nel tentativo di stanarli. E poi, riescono a andare in onda solo per pochi minuti al giorno. Di solito, filmati realizzati il giorno stesso.

La pandemia gialla non se n’è mai andataIl ponte di Westminster è deserto, cosparso di rifiuti. Manca Cillian Murphy che gironzola in tutina verde acqua, con la busta della spesa.
Mi viene in mente Alex col suo blog. E Lucy, a Roma. Spengo. Estraggo la tessera e la metto dentro Franny and Zooey di Salinger.
Passi leggeri alle spalle, intona una qualche canzoncina. Fa un sorrisetto sfottente e la linguaccia.
«You’re hungry?» chiede, passando rapida. Non aspetta la risposta.
Dalla cucina, dopo qualche istante, esulta festosa: «Pancakes!»
E poi, in tono grave: «For you, of course.»
«Shi…» S’interrompe non appena mi scorge sulla soglia. Continua a sorridere a labbra strette. «Love you!» esclama, con vocetta sottile.
Non le bado. Torno ad accendere il televisore.

Al tavolo. Mangia i biscotti senza glutine a piccoli morsi.
«They look like… urgh!» Fa una smorfia col boccone mezzo masticato ancora fra i denti, «and so does their taste. Horrible, really. D’you want some?»
Mi porge il rimasuglio.
Il pancake è bruciacchiato ai bordi. Bevo un sorso di succo d’arancia. È aspro.
«So, what?» fa. Mento penzoloni, espressione da ebete, studiata in decine di commedie fatte con lo stampo.
«D’you really believe you’ve married me?» insiste.
«Nope.» dico freddo, trangugiando altre due sorsate.
«Maybe…» inizia, stringendo le labbra come stesse stendendo il rossetto, «d’you wanna some coconut juice, uh?» Qualcosa, nel mio viso, deve farla ridere.
«I know it! I was sure!» Sbatte il pugno sul tavolo.
Si alza, dondolando la testa, facendo la bocca piccola e rugosa, aprendo gli occhioni blu alla luce ocra che si sparge sul tavolo di plastica foderata color sabbia. Intona la fottuta canzoncina e s’avvicina saltellando a tempo.
«Bruder bought a coconut, he bought it for a dime,
His sister had anudder one she paid it for de lime… ♫»
Prendo la forchetta e la punto verso di lei.
La ignora, scostandola con la punta dell’indice. Insiste, avvicinandosi a un palmo dal naso: «She put de lime in de coconut, she drank ‘em bot’ up
She put de lime in de coconut, she drank ‘em bot’ up… ♪»
Schiocca un bacio veloce sulla bocca, poi un secondo. Ne aspetto un terzo, ma mi arriva uno schiaffo.
Ricomincia: «She put de lime in de coconut, she drank ‘em bot’ up She put de lime in de coconut, she call de doctor, woke ‘im up… ♫»
Mi alzo, lei arretra di poco. Sorride, sorniona. Lascio la forchetta sul tavolo e le piazzo il palmo davanti alla bocca. La canzoncina diventa un mugugno confuso, ma non smette.
Mi chino su di lei e do un bacio sul dorso della mano, all’altezza delle labbra.
Il mugugno viene sostituito da una risata. Tolgo la mano.
Mi getta le braccia al collo. Ci stringiamo.
La bacio sulle labbra, scendo.
S’avvinghia. Sospira forte. Insinuo la mano sotto la vestaglia. Lavoro con le dita. Con l’altro braccio la sollevo. La metto a sedere sul ripiano, poi con una passata getto piatti e posate per terra.
Ridacchia con la mano davanti alla bocca.
Ancora baci. Apro la vestaglia e il pigiama di seta porpora, le accarezzo i seni e glieli stringo.
Mi cinge il collo mentre la penetro. Sussulta, geme, poi si stende, scossa. Colpi ripetuti. A volte dolci.
Si pizzica le labbra coi denti.
Scorgo una lacrima che le riga la guancia. Mi fermo.
Si rimette seduta. Accenna un sorriso triste mentre m’accarezza.
Ricomincia a baciarmi, piano.

Piedi poggiati su quattro riviste spiegazzate sul ripiano del tavolino. Poco più in là i piatti sporchi, le posate e i tovagliolini accartocciati della nostra cena: toast per me, hamburger per Zooey. TV accesa. Ci sono Kermit e Piggy. Lei è giallognola. O forse sono io a vederla così. Apro gli occhi, li chiudo, li strizzo e li riapro: è sempre gialla.
Tolgo il braccio dalla sua spalla. Domando se è stanca, dandole un bacetto sulla guancia.
Dice che vuol restare ancora un po’ a guardare la televisione. Risponde schioccando un bacetto all’aria, in ritardo, mentre già m’avvio.
Mi metto a letto. Le risate pre-registrate dello show arrivano chiare fin lì. False e rassicuranti.
Fuori, il rombo confuso di un aereo; ma è impossibile. Forse è un tuono. Deve esserlo. Mi stringo nelle coperte.
Non ho abbassato del tutto la tapparella. Entra la luce giallo-ambra del vialetto. Mi ricordo di quando andavo a scuola, mi svegliavo presto, per colpa della luce. Fanculo.

Mi ridesto. È seduta sul bordo del letto, a fissarmi. Faccio leva sulle braccia e sollevo il busto.
Il televisore di sotto è ancora acceso, rumori confusi, urla, forse raffiche d’armi automatiche.
Le carezzo la guancia. È gelata, le mani tremano. Gli occhi spalancati.
«What’s up?»
«They’re dying…» sussurra.

Scendo. La tessera inserita nel decoder.
Soldati in tenuta anti-sommossa, maschere anti-gas e scudi in plexiglass, fanno muro.
In mezzo al gas bianco, alcuni corpi a terra, si contorcono, la pelle del viso che si squama. I riflettori puntati addosso.
Dai blindati arrivano scrosci d’acqua a pressione.
Raffiche di mitra falciano gli infetti. La carne esplode in decine di bubboni di sangue nero; continuano a essere scossi da fremiti, le bocche ghignanti che sputano bava grigiastra.
Ne arrivano altri, colpiti alle gambe, sopraffatti dall’acqua, annaspano, ringhiano, cadono; gli occhi esplodono, coi crani che si piegano bruschi e si scoperchiano raggiunti dai colpi.
Tre poliziotti ne hanno messo uno nel mezzo, tra gli scudi. Sopraggiunge un quarto, gli ficca la pistola in bocca e spara. La poltiglia investe lo scudo e parte del viso di uno degli agenti, la sola parte scoperta.
Gli altri di allontanano, lo indicano, si sbracciano. Il tipo indietreggia, si guarda intorno, il riflettore lo illumina, i colpi lo crivellano.
Un uomo, sulla trentina, è inginocchiato in mezzo alla strada, braccia abbandonate, bocca aperta. Pelle gialla.
Piange, fin quando un proiettile non lo centra al volto, riducendolo in schegge.
Scruto lo schermo a caccia di dettagli. Non occorre, scorgo il cartellone Do Children, col busto sorridente di Holly W. Taglia un preservativo con le forbici per costruire la Nuova Inghilterra.
È Piccadilly Circus.
Spengo. È arrivata. Mi costringo a non urlare.
Zooey è in piedi dietro al divano.
Il telefono squilla.
Sobbalziamo. Vado a rispondere, mentre lei armeggia con lo stereo.
Una voce ferma, dall’altro capo.
Lei schiaccia il tasto play. Mi guarda fisso. Sgrana gli occhi e deglutisce.
Metto giù. «Vengono a prenderci, abbiamo un’ora.»

La pandemia gialla non se n’è mai andata

* famosa fotomodella inglese.

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