Questa è vera quant’è vero Iddio, tramandata negli annali della mia famiglia come una delle pagine più pittoresche e significative della prima infanzia di me medesima, quella me medesima che, nata sotto il segno dell’Acquario, già in tenerissima età manifestava intraprendenza, talento artistico e doti creative.
Era una bella estate sul finire, al Lido passava la Mostra del Cinema (fu l’anno di Rashomon, per illustrare il livello) e sulla spiaggia attricette e parvenus si facevano immortalare dai fotografi, mentre nelle serate danzanti dei grandi alberghi impazzavano le musiche elettrizzanti di Perez Prado.
Io avevo mesi pochi ma sufficienti a gattonare e a progettare guai, ragion per cui nei momenti di maggiore indaffaramento mia madre mi neutralizzava deponendomi all’interno di un box con sbarre di legno. Mi ci trovavo, contro ogni mia volontà, anche il mattino di quella famosa telefonata. Il telefono lo avevamo da poco, e infatti a poco serviva. Lo avevamo messo più che altro in caso si dovesse chiamare il pediatra, perché quasi nessuno dei nostri parenti e conoscenti lo aveva. La nonna, per esempio, che abitava a Venezia, non lo aveva. Quella santa donna, per avere notizie della sua prima nipotina, si alzava all’alba, puliva casa, preparava il pranzo per il nonno, prendeva il vaporetto e in un’oretta, pian pianino, fermata dopo fermata, sbarcava al Lido e si presentava a casa nostra con la sua sporta piena di piccoli doni umili.
Una che aveva invece il telefono era la più cara amica della mamma, e con lei stava parlando quella mattina di bel sole, finestre spalancate e Tico Tico dalle radio di tutte le case vicine.
Io nel box mi annoiavo. I giocattoli li avevo già gettati tutti sul pavimento, avevo tirato anche un po’ di strilli nervosi e tentato inutilmente di scardinare le sbarre, ma quelle due ne avevano, da raccontarsi. Avessi avuto una sorellina, un fratellino, un gatto. Ma vennero tutti dopo, col tempo..
A proposito di gatti, lo sai cosa fa un gatto quando non sa più come attirare la tua attenzione? Ti fa gli scherzoni. Ti rubacchia la penna, ti fa cadere un soprammobile, ti graffia il divano, finché non gli dai retta.
Io feci la cacca.
E dato avevo mangiato la pappa di carote, feci la cacca di pappa di carote, per colore e consistenza perfettamente identica, giusto un po’ differente quanto a odore. La feci, l’osservai e mi dissi che com’era entrata così era uscita, tale e quale. Arancione e papposa. E siccome non mi era nemmeno piaciuta, l’idea di averla trasformata in cacca fu un po’ una vendetta.
Solo che non è tutto qua. Una marmocchia di pochi mesi è perfettamente autorizzata a fare la cacca nel box, non c’è nulla di cui rimproverarla, soprattutto se la mamma è temporaneamente distratta altrove.
Bisognava aggiungerci il tocco speciale, quello che avrebbe trasformato un evento naturale in un monito degno di essere ricordato.
Così, mentre la mamma continuava a parlottare al telefono, io con le manine sante cominciai a raccogliere la santa cacchina papposa e a spalmarla coscienziosamente dappertutto, sulle odiate sbarre, sul pavimento di cartone, sulle gambette nude e, con maggiore abbondanza, sul bel musino lentigginoso che mi ritrovavo e che tutti volevano sempre sbaciucchiarmi. Tracciai pennellate spontanee secondo una tecnica di mia invenzione (successivamente copiata da certi pittori astratti) ottenendo interessanti effetti cromatici e soprattutto materici, e avrei continuato a perfezionare la mia performance se ad un certo punto non mi fosse venuta a mancare la materia prima.
Finita la telefonata, la mamma mi trovò così, placida e orgogliosa della sontuosa opera pittorica che mi circondava e di cui facevo parte. Un quadro vivente, e olezzante. Mi sentivo come mi sarei sentita tante altre volte nella mia vita, in futuro: appagata per un atto artistico originale, come quando metto la parola fine a un racconto perché ormai quello che avevo dentro è uscito tutto (sì, ammetto che il paragone è imbarazzante, potete astenervi da battutacce ovvie).
Qui il biografo dice solo che a mia mamma cascarono le braccia, sorvolando con eleganza sulla scena isterica che ne seguì, e che sfociò in una nuova telefonata di sfogo, stavolta a mio padre, il quale non la prese tanto bene e minacciò di sciogliere il contratto con la Telve. Poi però non lo fece. E neppure mia madre mi fece più la pappa di carote.
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Scherzosamente scritto per l’Eds arancione del grande cocomero, bandito dalla Donna Camèl che ormai tutti ben conoscono…
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