La parola è rischiosa

Da Marcofre

La parola contiene un potenziale pericoloso. Sempre.
Non mi riferisco solo a certe espressioni infelici che “sfuggono” al nostro controllo durante una conversazione. Succede.
L’autore, almeno quello che ha una considerazione “alta” della scrittura, costruisce (o dovrebbe farlo), un edificio fatto di riflessione e silenzio attorno a sé e alla sua opera.

Naturalmente non si cura troppo di quello che accadrà dopo con la pubblicazione: consenso o successo sono concetti distanti dalla sua mente. Costui dovrebbe ricordare che se gente del calibro di Richard Yates deve morire per avere un poco di considerazione, è ridicolo attendersi qualcosa.
Però è consapevole che la parola quello chiede, e quello bisogna darle: fine.

In molti abbagliati dal successo, dalla prospettiva di arrivare a tutti i lettori del globo terracqueo grazie all’auto-pubblicazione, leggeranno queste frasi crollando il capo.

Dovrebbero invece domandarsi se il pericolo racchiuso nelle loro storie è quello giusto. Spesso non lo è affatto. Tutto quello che desiderano è che si parli di loro (non della storia). O che ci sia da qualche parte un qualcosa con il loro nome stampato sopra.

Perché questo timore di scuotere un po’ lo status quo? Non ho in mente rivoluzioni: ma il desiderio di svelare a un lettore (uno solo), che la faccenda che liquidiamo con il termine “vita” è un po’ più complicata di quello che appare in televisione.

Come si fa a rendere le parole pericolose?

  • Usandole con parsimonia.
  • Frequentando di più il silenzio.
  • Pensando.

Come si vede, niente di spericolato, e nemmeno costoso. Impegnativo sì, eccome. Spesso abbiamo a che fare con autori che hanno purtroppo la pessima abitudine di parlare troppo. Siccome hanno scritto delle opere davvero interessanti, dopo è richiesto loro di parlare su tutto. Perché essi sanno.

È un errore, perché di solito non hanno molto da dire. Naturalmente, ci sarà sempre un gruppo di persone, più o meno folto, che troverà il loro pensiero interessantissimo. Di rado lo è.

La parola è capace di cambiare un individuo. Il suo pericolo è a una prima occhiata del tutto risibile.
Costui per esempio, smetterà di considerare certi argomenti, interessanti. Se la sorte lo conduce in certi ambienti di lavoro, non avrà alcun piacere nel parlare sempre e solo di:

a) calcio;

b) donne;

A proposito del punto b: ho messo l’espressione più elegante perché di solito l’argomento non è mai la donna, ma alcune precise parti anatomiche che devono essere spremute e penetrate.
E basta.

La parola riesce spesso a creare tra l’individuo e gli altri una frattura. Poi costui può decidere se proseguire nel suo cammino solitario, e aumentare il divario che si crea attorno a lui. O se invece tornare nei ranghi.

Un autore dovrebbe aver già assimilato questo tipo di argomento, e se ha talento dovrebbe anche essere in grado di renderlo nella maniera più efficace sulla pagina. Ha in gestione un tipo di potere troppo importante per desiderare “solo” milioni di copie vendute. Il che a volte (a volte: cioè raramente) accade. Ma non sono importanti le copie vendute, ma i lettori che iniziano a riflettere su se stessi.

E magari comprendono che hanno diritto a qualcosa di meglio.


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