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Ormai c'è una petizione per tutto. Per abolire la pizza con la rucola, per vietare le automobili nere opache, per chiedere la sparizione di Paola Ferrari da tutti i palinsesti della televisione italiana. La complicità virale dei social network ha diffuso a dismisura le iniziative di siti come Change.org, Avaaz.org, Firmiamo.it, tanto che non c'è giorno in cui non veniamo invitati a sostenere una causa con una firma. Eppure, come in una specie di al lupo al lupo, la moltiplicazione virtualmente infinita delle possibilità di esercitare questa sorta di miraggio di democrazia diretta, fa in modo che vada perduto il senso vero dell'attivismo, dell'impegno e della (reale) partecipazione per cercare di cambiare davvero le cose.
La petizione on-line (in merito a un problema di cui probabilmente non conoscevi l'esistenza fino a un minuto prima) ti illude che basti una firma. Quattro secondi, un clic e hai fatto quello che potevi fare. Ti convince di esserti impegnato in prima persona per migliorare il mondo e in questo senso ti gratifica per aver fatto qualcosa che in realtà non ha comportato alcuno sforzo, nessuna difficoltà e della quale dopo tre secondi ti sarai già dimenticato. Se poi, dopo qualche tempo, ti ricorderai di andare a documentarti sull'esito della petizione (ma non ci andrai), molto probabilmente scoprirai che non ha raggiunto il suo scopo, come succede con la stragrande maggioranza delle petizioni, perché quelle che centrano il bersaglio sono veramente una manciata e spesso il loro successo deriva più dall'autorevolezza di chi le ha proposte, che dalla petizione in sé o dal numero di adesioni raccolte.
Ma se questo modo di intraprendere battaglie personali, politiche e sociali finisce per costituire un innocuo e piacevole tonico per la propria coscienza, la sua inflazione lo depotenzia in maniera preoccupante. E questo non è più tanto innocuo. Perché in questo modo si tende a smarrire il senso dell'importanza delle cause per cui si dovrebbe combattere, attribuendone ad alcune (molta) più di quella che meritano e ad altre (molta) di meno. Così succede che la battaglia per non far chiudere una serie TV cancellata anzitempo finisca sullo stesso piano di quella per evitare la lapidazione di una condannata a morte in Iran e questo fa sì che si passi davanti alla seconda con la stessa reattività con la quale si passa davanti alla prima, perdendo addirittura il senso stesso della battaglia o, almeno, della misura di essa. E quando poi ci sarebbe da fare sentire sul serio la propria voce, il proprio grido, scendendo in piazza, si preferisce invece andare a cercare un comodo link dove scrivere il nostro nome, cliccare e tornare subito, senza perdere altro tempo, sul divano, a sgranocchiare Pringles davanti alla tv. Così se, come diceva Gaber, "la libertà è partecipazione", allora questa partecipazione sarà tutt'altro che libertà.
La petizione on-line (in merito a un problema di cui probabilmente non conoscevi l'esistenza fino a un minuto prima) ti illude che basti una firma. Quattro secondi, un clic e hai fatto quello che potevi fare. Ti convince di esserti impegnato in prima persona per migliorare il mondo e in questo senso ti gratifica per aver fatto qualcosa che in realtà non ha comportato alcuno sforzo, nessuna difficoltà e della quale dopo tre secondi ti sarai già dimenticato. Se poi, dopo qualche tempo, ti ricorderai di andare a documentarti sull'esito della petizione (ma non ci andrai), molto probabilmente scoprirai che non ha raggiunto il suo scopo, come succede con la stragrande maggioranza delle petizioni, perché quelle che centrano il bersaglio sono veramente una manciata e spesso il loro successo deriva più dall'autorevolezza di chi le ha proposte, che dalla petizione in sé o dal numero di adesioni raccolte.
Ma se questo modo di intraprendere battaglie personali, politiche e sociali finisce per costituire un innocuo e piacevole tonico per la propria coscienza, la sua inflazione lo depotenzia in maniera preoccupante. E questo non è più tanto innocuo. Perché in questo modo si tende a smarrire il senso dell'importanza delle cause per cui si dovrebbe combattere, attribuendone ad alcune (molta) più di quella che meritano e ad altre (molta) di meno. Così succede che la battaglia per non far chiudere una serie TV cancellata anzitempo finisca sullo stesso piano di quella per evitare la lapidazione di una condannata a morte in Iran e questo fa sì che si passi davanti alla seconda con la stessa reattività con la quale si passa davanti alla prima, perdendo addirittura il senso stesso della battaglia o, almeno, della misura di essa. E quando poi ci sarebbe da fare sentire sul serio la propria voce, il proprio grido, scendendo in piazza, si preferisce invece andare a cercare un comodo link dove scrivere il nostro nome, cliccare e tornare subito, senza perdere altro tempo, sul divano, a sgranocchiare Pringles davanti alla tv. Così se, come diceva Gaber, "la libertà è partecipazione", allora questa partecipazione sarà tutt'altro che libertà.
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