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“La passiflora non è una passeggiata en plein air” di Rita Vitali Rosati; recensione di Lorenzo Spurio

Creato il 04 maggio 2015 da Lorenzo127

La passiflora non è

una passeggiata en plein air

di Rita Vitali Rosati

 

Recensione di Lorenzo Spurio

  

Difficile o azzardato poter addurre un commento critico su un’opera complessa ed eterogenea come quella di Rita Vitali Rosati che col volume La passiflora non è una passeggiata en plein air (2014) non solo ci consegna un percorso visivo interessante attraverso un catalogo fotografico monografico, ma anche un saggio vivido e speziato di una selezionatissima poetica del secondo Novecento. Le poesie di alcuni grandi della scena poetica del nostro periodo tra i quali cito Eugenio De Signoribus, Guido Garufi e Franco Loi, e dunque i loro versi, si legano in maniera inscindibile con gli apporti visivo-iconici propostici dall’organizzatrice di questa singolare mostra. I versi costruiscono corrispondenze e richiamano riflessi di luci, ambienti e particolari consacrati all’eternità dallo scatto fotografico della Nostra.

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Come osserva Paolo Nardon nella nota di prefazione che apre il testo, la passiflora è “un fiore, ma anche gustoso frutto della passione”, e credo che risieda proprio qui, in questa scarna ma evocatrice definizione, il significato concettuale, il nerbo ispiratore e costruttivo poi dell’intera opera antologica che sfogliamo con vivo piacere e un’irrefrenabile ricerca di una maggiore comprensione.

Ogni artista, si sa, sia esso un poeta, un pittore figurativo o astrattista o un fotografo, con la sua attività propone un suo particolare e personale cammino di ricerca, di espressione volto poi spesso a una plurale condivisione, inteso cioè come un manufatto culturale che ha un suo significato se effettivamente viene privato di tutti quei retroterra più marcatamente concettosi e psicologici per esser proposto a una fruizione collettiva. Ricercare quindi i motivi, gli elementi ispirativi, i modelli, le cause e le volontà che stanno alla base di un determinato processo culturale è sempre qualcosa di difficoltoso e tale problematicità si acuisce ancor più nel momento in cui ci mettiamo nella condizione di osservare, contemplare e criticare senza avere nozioni chiare e puntuali sul creatore stesso di quel prodotto artistico.

Rita Vitali Rosati (Milano, 1949) ha esposto i suoi lavori in spazi istituzionali e gallerie private in tutta Italia e all’estero. Le sue opere sono presenti, tra l’altro, presso il Museo Bargellini di Pieve di Cento (Bologna) e il Museo Durini di Bolognano (PE).

Le fotografie di Rita Vitali Rosati propongono uno scambio dialogico tra natura umana e natura vegetale in ambienti e circostanze apparentemente anomale e di difficile considerazione, realizzando non tanto una celebrazione panteistica ossia di scambio reversibile tra uomo e natura, ma piuttosto un serrato dibattito tra di essi. Ce ne rendiamo conto, da subito, nella foto d’apertura dove una panchina in ferro ormai completamente arrugginita fa come da terrapieno rialzato a un’ipotetica base di terra nella quale spuntano papaveri per lo più rosa e alcune rose di Geriko. C’è da intendersi subito però: la natura vegetale e floreale della Vitali Rosati non è impressionata dallo scatto fotografico nel momento della sua timida crescita o dello sboccio, né tanto meno nel suo momento più palesemente florido caratterizzato dalla lucidità delle tinte e dalla rigogliosità dell’apparato vegetale (stelo, foglie), ma al contrario in una fase di deterioramento prossima all’appassimento e alla marcescenza. La Nostra coglie con particolare attenzione il processo di invecchiamento dell’elemento naturale fotografando l’avanzata del tempo che tutto deteriora e consuma, proprio come la panchina di ferro, intuiamo un tempo bella e lucente e ora quasi completamente scolorita e fagocitata dall’ossido.

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Le mani dell’uomo che intravediamo in alcuni scatti sono anch’esse al passo con il senso di trascuratezza ed abbandono: mani sporche, rugose, non del tutto curate, con piccole escoriazioni o al contrario sono occultate da bende e garze dalle quali si evidenziano macchie di sangue e si intuiscono lesioni più o meno gravi. Sono, in tutti i casi, assieme ai fiori le vere protagoniste di queste foto ed è proprio lì, infatti, che la Nostra sembra voler accentrare l’interesse e sottolinearne l’importanza. A dare un sostegno alla flora morente, indebolita e ormai incapace di assumere la forma canonicamente presente in esemplari vivi e vegeti, è il curioso ricorso della nostra artista-fotografa-istallatrice a strisce di carta adesiva bianca stretti attorno a gambi di tali fiori che hanno esalato ormai gli ultimi respiri. Il verso iniziale della poesia del fabrianese Alessandro Moscè ben sottolinea tutto ciò: “La mano tende ad un infinito presente”.

Questo catalogo, allora, come è stato già osservato più volte, è caricato polisemanticamente di molteplici significati: dal rapporto uomo-natura che, di riflesso, porta con sé quello ancora più complicato cultura-natura, all’ossessione temporale che si realizza con la presa di coscienza che il carpe diem è una momentanea illusione di appropriazione degli istanti che, nel momento della fugacità del tempo, conduce l’uomo a una considerazione mesta e a un bilancio esistenziale dal quale sembra fuoriuscirne sconfitto, sino all’analogia religiosa che ripercorre il calvario della Passione di Cristo, debole, affaticato, sporco e insanguinato proprio come le tante mani che si susseguono pagina dopo pagina. Emblematica a questo punto la foto della ragazza con corpetto ed intimo bianco con capo reclinato verso sinistra, quasi compunto e addolorato in una sorta di sonno della ragione, trafitta dall’interno da una serie di lunghi chiodi che ne tracciano il sacrificio silenzioso dell’umanità.

La lirica della sambenedettese Enrica Loggi dal titolo “La fanciulla dorme” è parte inscindibile di questo dittico parola-immagine nella quale la Vitali Rosati permette all’osservatore cauto di cogliere un velo di casta seduzione nella ragazza che, ad occhi chiusi e contornata da fiori secchi e stecchiti a bagno in una vasca, riesce quasi a trasfondere il profumo netto di quei fiori di campo. Donne sulle quali la nostra non credo voglia porre tanto l’attenzione sull’effimera eventuale bellezza del corpo e dei suoi attributi, piuttosto carpirne il legame con la natura floreale marcescente, prossima al trapasso. Per questa ragione la Nostra non direziona lo sguardo delle stesse donne verso qualcosa (esse hanno sempre gli occhi chiusi o la riproduzione dello scatto è tagliata direttamente a metà naso per eludere proprio la fascia visiva) concentrando l’attenzione riguardosa verso l’elemento vegetale, a questi bouquet sfioriti, sporchi, dimenticati, esteticamente fastidiosi e poco ornamentali ossia ciò che l’anconetano Scarabicchi esprime con il “mistero d’umano che declina”.

Un’opera complessa e multiforme questa della Vitali Rosati che utilizza linguaggi multipli e codici che vanno identificati ed approfonditi con circospezione rintracciando il giusto legame tra parola e immagine e solo in seguito tra parola e concetto. È la sfera tematica del tempo ad esser presa ad indagine secondo un approccio visivo-espressivo palesemente riuscito e catturante, che permette al termine di questo percorso tra fiori-non fiori di percepire con più coscienza ciò che Scarabicchi definisce il “tempo che non vedi dentro gli anni” a dominare nella nostra esistenza.

Ci sono fiori dappertutto/ l’ho appena scoperto ascoltando/ fiori per l’udito” esordisce la poetessa peruviana Blanca Varela.

Basterà, allora, risultare capaci di avvertirne la presenza e saperli ascoltare.

 

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 03-05-2015



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