Recensione a Saveria Chemotti, La passione di una figlia ingrata, L’Iguana, 2014.
Ci sono libri in cui l’impronta femminile è immediatamente evidente. Si capisce subito che sono stati scritti da donne, senza bisogno d’altro che leggerne le prime righe. Il libro di Saveria Chemotti è uno di questi. Da donna, l’ho sentito immediatamente ‘mio’. L’ho letto tutto d’un fiato, rapita da una scrittura originale, raffinata e ‘popolare’ insieme, autentica quindi, una scrittura piena di vita.
La passione a cui accenna il titolo è il percorso di amore e dolore che porta la protagonista a dire addio alla madre, una madre affetta da una male che, inesorabilmente, la priva della sua identità e della sua memoria, e che alla fine la conduce alla morte. Nonostante la malattia che ne sconvolge la personalità, la madre conserva inalterata la sua potenza simbolica, una potenza che irrompe proprio nel momento in cui la sua fine diventa vicina.
La strada percorsa per “lasciar andare” la madre morente è una strada che trova il suo compimento nel doppio movimento attraverso il quale la figlia da un lato prende congedo dalla presenza fisica della madre, fa cioè i conti con il suo non esserci più, “al di fuori”. Questo addio si compie però, dall’altro lato, non nella separazione definitiva ma nella capacità di accogliere in sé ciò che la madre è stata. Da qui la ricerca di tracce del suo passato, delle sue parole, della sua vita.
Nell’accogliere in sé la madre per dirle addio si mostra come quello che permette di dare un senso alla “perdita” è la scoperta che le tessiture che ci costituiscono ci legano al passato in perfetta continuità. Siamo fatti di passato e non solo del “nostro”.
Nell’incontro con il passato si fa chiaro come la madre biologica sia insieme “unica” nella sua persona ma anche parte di un’origine più ampia in cui a lei si affiancano altre “madri” (in questo caso innanzitutto la nonna). L’ idea di madre, nel momento ultimo del congedo e dell’accoglimento in sé, si espande fino a comprendere tutto ciò che nella vita assume il ruolo di madre, compresa la terra che ci ha cresciute. Nel dolore della morte e della fine cui essa rimanda, la riflessione si apre un varco verso il dato che la madre è figura molteplice e che quindi non si nasce una sola volta. Ma si rinasce, si rinasce.
Leggendo le pagine di questo bellissimo libro, il passato stesso appare alla fine come una porta aperta verso la trascendenza. E’ esso a dare un senso a ciò che siamo e che ci dà una direzione. Pur essendo profondamente immanente in quanto ‘è’ stato, il passato è soprattutto ciò che ci dà la radice, il punto in cui la nostra vita varca il confine stretto dell’immanenza per andare oltre. Il nostro “oltre” non si dà quando non saremo, ma quando ancora non eravamo.