Purtroppo servono i soldi per ricostruire. Bisogna acquistare bulldozer, scavatrici e trovare posti dove mettere le quintalate di macerie non recuperabili. Servono soldi per aiutare le persone per rimettere su le case e gli uffici. Purtroppo non bastano l’entusiasmo, la partecipazione e la passione manifestate da tanti in Nepal e nel mondo in questo mese e mezzo. Sarà una cosa lunga e faticosa che, forse, partirà dal 25 giugno con la Conferenze dei donatori.
Mi scrivono dai distretti lontani di Dharan, nell’est del Nepal, distanti dall’epicentro del sisma. Ma anche lì le due botte di aprile e maggio, hanno distrutto le case dei villaggi sulle colline come Dobhane e Khatumma, mai sentiti nominare, ma con 308 famiglie che dormono all’aperto, e lì il monsone picchia duro. Subito sono partiti, solo, i giovani di Itahari (cittadina della pianura, lungo la strada che porta a Kakarbitta e ai confini orientali) con i primi aiuti, cibo, tendoni e manodopera per costruire rifugi temporanei.
Quanti di questi posti ci sono sulle colline del Nepal. Il Governo dice che bisogna evitare che gli aiuti, per comodità e visibilità (come è accaduto ad Haiti) si concentrino solo in poche aree ed evitare duplicazioni è necessario che siano coordinati dal governo. Così come per evitare d’importare cose inutili o di favorire speculazioni, i dazi sono stati tolti solo sui beni della lista pubblicata dal governo nepalese. Infine, l’appello per concentrare gli aiuti alle istituzioni nepalesi è diretto, ha dichiarato il primo Ministro, ad evitare che gran parte di questi finiscano in spese di struttura e in consulenti esteri.
Una linea politica, teoricamente condivisibile, se le istituzioni (locali e nazionali) funzioneranno. Lo stesso, a parole, dice l’industria dell’assistenza (grandi INGO e sistema delle NU) ma i realtà, attraverso comunicati stampa obliqui e copiati e diffusi dai media occidentali, l’idea è quella di esaltare i problemi di gestione del governo e di concentrare i fondi ai soliti noti.
Ad oggi, sono arrivati USD 125 milioni (attraverso l’appello delle Nazioni Unite) e USD 183 di contributi volontari. Questi soldi (sufficienti solo per la fase d’emergenza) e in massima parte provenienti dai governi (UK, Giappone, Norvegia i principali donatori; 32% da privati) cioè dalle tasse dei contribuenti, sono stati così ripartiti: usd 55 milioni all’UNICEF, usd 29 mio al WFP, usd 8,22m all’IOM, 6,77m a Save The Children e 12m a WHO. Pochi, come sempre, alle realtà locali. Secondo l’OCHA che pubblica questi dati 10m sono andati alla logistica e 2 m al coordinamento. Si stima che un altro 30% (almeno) sia finito nelle spese di struttura e personale; poiché, come sempre, i dati non sono dettagliati (costi materiale, costi personale, quantità materiale, etc.) si possono fare solo delle deduzioni, basate sulle loro abitudini.