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Così, dopo un film-omaggio e un po’ retro come Gli abbracci spezzati, il regista torna al cinema con La pelle che abito, un film destinato a non lasciare indifferenti e a cui solo una lenta metabolizzazione può conferire un significato che vada al di là della sensazione disturbante e contraddittoria che ci accompagna per tutta la visione.
Dal mio punto di vista il film va valutato al netto di Almodovar, cioè dopo aver identificato e in qualche modo fatto la tara a tutti gli eccessi che gli sono propri: la naiveté (ai limiti dell'involontariamente comico) di certi dialoghi, gli inserti kitsch, la ridondanza e la sovrabbondanza, il citazionismo esasperato, la componente meta-cinematografica, l’oscillazione continua tra splatter e asettico, tra surreale e grottesco, tra tragico e comico. Come accade spesso in Almodovar, alcune delle sue soluzioni suscitano il sorriso del paradosso del tutto gratuito.
Detto questo, il tema del film è stimolante e – pur contenendo alcuni degli elementi portanti della sua cinematografia, tra cui l’identità di genere, il rapporto tra forma ed essenza, il travestitismo, l’amore come pazzia – va decisamente al di là di essi.
Robert (un Antonio Banderas particolarmente magro ed invecchiato, ma pur sempre affascinante) è un medico chirurgo che sta sperimentando la possibilità di trapiantare sul corpo umano una pelle realizzata a partire da esperimenti eseguiti sui maiali. L’ossessione di Robert per la fisicità dei corpi e per la loro apparenza esteriore (testimoniata dalla pervasiva presenza in casa di immagini di corpi) sconfina in un delirante senso di onnipotenza in merito alla possibilità di ricostruire e preservare tale esteriorità e di condizionarne in qualche modo anche la vita interiore.
“Cosa non può fare l’amore di un pazzo!” dice Marilia (Marisa Paredes), raccontando la storia dolorosa di Robert la cui moglie è rimasta carbonizzata in un incidente stradale e si è suicidata dopo essersi casualmente vista allo specchio e la cui figlia con gravi disturbi psichici è stata violentata durante una festa di matrimonio a cui lui stesso partecipava.
La mancanza di controllo sul mondo circostante alimenta la follia di Robert e il suo tentativo di poter controllare – modellandone i corpi – anche la vita delle persone. Così, la sua vendetta nei confronti di Vicente (Jan Cornet), il violentatore della figlia, sarà quella di rapirlo e, attraverso una lunga e lenta opera di trasformazione del corpo, di farne una copia della moglie morta.
La scena in cui Robert discute con un suo collega mentre avvolge fili di ferro intorno ai rami dei suoi bonsai per fargli assumere la forma desiderata è in qualche modo la sintesi del tema del film, che secondo me va letto in senso più ampio rispetto al tema prettamente almodovariano del rapporto maschile/femminile.
Robert è la rappresentazione del demiurgo il cui amore per la sua creatura – come Vera (Elena Anaya) viene più volte definita – spinge a limitarne pesantemente la libertà confinandola in una stanza dove c’è tutto quello che le serve per vivere e per trascorrere il tempo, ma la televisione trasmette solo tre canali e le telecamere consentono al “padrone” di controllare e, al contempo, contemplare la sua creatura in ogni attimo della giornata.
Una stanza in cui manca il respiro, quello che Vera richiama ossessivamente nelle sue scritte sui muri.
Una stanza in cui la creatura crea a sua volta altre immagini imperfette di corpi con pezzi di stoffa e oggetti riciclati, altre illusorie parvenze di umanità senza vita.
In Vera si legge in controluce la lotta dell’umanità per spezzare le sue catene, che sono culturali prima che naturali.
Siamo destinati ad amare il creatore e ad essergli grati del suo amore o esiste un istinto che è nell’umanità (e forse in tutti gli esseri viventi) alla libertà delle scelte e delle azioni e che, sfruttando l’imprevedibilità degli eventi, ci porta comunque e sempre verso la nostra natura più vera, che è fatta essenzialmente di libertà?
La pelle che abito – come si usa dire in questi casi – non è un film risolto: pretenzioso per certi versi, didascalico per altri, carico di indizi che il regista dissemina lungo la narrazione, ma spesso disperde o banalizza nel suo svolgimento.
Tutto ciò detto, io l’ho trovato inquietantemente, ma freddamente capace di rievocare ancestrali paure e bisogni del nostro essere umani.
Voto: 3,5/5
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