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La pesante eredità della deindustrializzazione che non possiamo permetterci

Creato il 17 aprile 2013 da Lucia Navone @lucia_navone

Presentato il rapporto di Legambiente “Ambiente Italia” 2013: dalla deindustrializzazione del paese, oltre ai danni economici anche quelli ambientali

“Negli ultimi anni abbiamo perso il 20 per cento delle attività produttive”. A lanciare l’allarme è Susanna Camusso, segretario nazionale della CGIL, intervistata da Repubblica. “È dal 2004 che lanciamo moniti sul rischio di deindustrializzazione. Siamo stati considerati con sufficienza: ormai, ci dicevano, non è più il lavoro al centro della vita delle persone, ma la capacità di consumare“.

Oggi, oltre al lavoro, il processo di deindustrializzazione in atto nel paese sta cancellando intere aree ex industriali, già depresse dal punto di vista occupazionale e ora in piena emergenza ambientale. Pensiamo a Taranto, o a Brindisi, o a Porto Vesme o, ancora, a Piombino, fino alla Ferriera di Servola a Trieste. Ma anche ai poli chimici e petroliferi di Gela, Augusta Priolo Melili, fino a Porto Torres e Terni senza ovviamente dimenticare la raffineria Api di Falconara e il petrolchimico di Porto Marghera. Tutte aree che attendono da anni le bonifiche,  inserite  dal 1998 nel Programma di Bonifica del Ministero dell’Ambiente. Un programma che non è praticamente mai partito o, come nel recente caso di Bagnoli, ha fatto più danni che altro. E’ di qualche giorno fa infatti la notizia del sequestro dell’ex area industriale di Bagnoli dove l’attività di ripristino ambientale ha addirittura portato, tra gli altri, ad un aumento del tasso di inquinamento della zona, compromettendo così la piena bonifica del litorale.

Un paradosso solo italiano dove anzichè cogliere l’opportunità, la si distrugge sul nascere.  Un esemio, fra i tanti, è Piombino che aspetta da anni i fondi per bonificare l’area vicina al porto e rilanciare così le attività turistiche verso l’Elba; un’occasione per far ripartire l’economia di una città messa in ginocchio dalla chiusura delle industrie siderurgiche.  E l’elenco potrebbe proseguire oltre anche se, come noto, la bonifica dei siti contaminati rientra negli obblighi costituzionali.

Secondo un’analisi della CGIL, naturalmente attenta al tema per le prospettive occupazionali che potrebbero nascerne,  le risorse stanziate dal Governo Prodi (400+450), erano state poi destinate ad altro dal Governo Berlusconi. Secondo lo stesso documento, nel 2012, la previsione di spesa per le bonifiche ammontava a 38.918.158, ma al momento non è dato sapere se e come sono stati spesi. Dall’analisi della CGIL poi emerge che sono state terminate solo due bonifiche e nei siti di interessa nazionale, in compenso si sono registrati fenomeni di speculazione e di criminalità. Tra le cause dell’immobilismo, gli enormi costi che, secondo il sindacato, dovrebbero essere valutati alla luce delle importanti ricadute economiche e occupazionali che le bonifiche potrebbero avere sul territorio.

E secondo Legambiente non mancano i casi di successo che potrebbero far ripartire il settore in Italia. Ne sono un esempio la Archimede Solar Energy di Massa Martana o la 3Sun in Sicilia che produce pannelli fotovoltaici a film sottile, o ancora le nuove bioraffinerie a Porto Torres fino a quella di Crescentino. In queste zone si sono salvaguardati ambiente e posti di lavoro. O perlomeno, si sta provando ad arginare gli effetti di quel processo di deindustrializzazione che non possiamo assolutamente permetterci. Come evidenzia il rapporto “Ambiente Italia 2013″, siamo “un paese malato”, non solo sul fronte ambientale.

Tra il 2008 e il 2011, secondo Legambiente,  il tasso di occupazione dei giovani è sceso dal 24% al 19%, un valore tra i più bassi in assoluto all’interno dell’Unione europea (la media è di oltre il 33%), con 4 regioni italiane (Basilicata, Calabria, Campania e Sicilia) che si collocano tra le regioni europee a più bassa occupazione giovanile. Il fenomeno che dovrebbe destare maggiore preoccupazione è l’alto livello di giovani che non lavorano né studiano né sono attivi disoccupati (i Neets). In Italia, il loro livello, già elevato nel 2008 (16,6%), è esploso dopo la crisi raggiungendo il 20% nel 2011. Un valore ben superiore non solo alla media Ue (13%), ma anche a quello del Portogallo (12%), della Grecia (17%) o della Spagna (18%). Si è quindi bloccata la mobilità sociale dell’Italia, già non particolarmente elevata»


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