Magazine Diario personale
A lungo questo libro non mi ha attratta, soprattutto per via del titolo: non ho letto Lolita, ma mi stava istintivamente antipatica. Oggi, invece, so che è un libro che dovrò leggere prima o poi, e proprio grazie a Azar Nafisi.
Ma torniamo a questo libro, che è un po' un "metalibro": dentro ci trovate raccontati un sacco di altri libri, dal punto di vista estremamente insolito di una professoressa (sì, declino al femminile anche questi nomi. Credetemi, verrà il giorno in cui ci stupiremo di non averlo sempre fatto) di letteratura inglese all'università di Teheran negli anni dell'estrema talibanizzazione. Attraverso il suo racconto non solo si scoprono e rivalutano nuovi libri -vedi io e Lolita- ma si assiste man a mano alla dolorosa scomparsa di un mondo e di una cultura. Sostituiti non da nuove idee, più o meno condivisibili, ma dal buio e dall'ignoranza.
Non è un libro in cui è facile identificarsi, almeno non lo è stato per me. Continuo, per fortuna, a non riuscire minimamente a immaginare cosa possa voler dire rischiare mesi di prigione per aver riso ad alta voce. Ma resta una testimonianza potente, raccontata senza troppi fronzoli e demagogia.
Ci trovate un'incredibile quantità di lutti, umiliazione, dolore e rabbia. E altrettanta enorme forza e resistenza, compassione e dignità. Dei primi faremmo tutti volentieri a meno, degli ultimi ne avremo sempre bisogno, anche in un mondo migliore di questo.
C'è un passo del libro in particolare che mi ha molto colpita, verso la fine. Ve lo riporto:"C'è un modo di dire persiano, "la pietra paziente", che si usa spesso nei momenti di difficoltà e smarrimento. Se un uomo riversa tutti i suoi problemi e i suoi guai sulla pietra, questo lo ascolterà, ne assorbirà i dolori e i segreti, e allevierà la sua pena. A volte però la pietra non riesce più a sopportare il peso e si spacca".
Non ho potuto non pensare che in Iran ci sono molte pietre. E che purtroppo tutte saranno già cariche di dolori e pene e tante si saranno già spaccate.
Non ho potuto non sperare che un giorno nessuna pietra si spacchi. Non così, almeno.
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