Se nella lettura di un romanzo ti conquistano le parole, oltre che la trama e i protagonisti, vuol dire che il suo autore è riuscito nell’impresa più ardua: parlare direttamente al tuo cuore di una vita che non ti appartiene con immagini che, suggerite dalla sua scrittura, scorrono nitide davanti agli occhi senza l’ausilio di una ripresa o di una musica struggente, come può essere in un film. Questo dialogo fra le pagine del libro e il cuore del lettore, un passaggio qui immediato, è infatti frutto delle parole sapientemente scelte e chiamate a descrivere la storia e i suoi personaggi; è così sin dalle prime pagine del romanzo La piramide del caffè (pubblicato da Mondadori), quando l’autore, Nicola Lecca, ci presenta Imi, il giovane protagonista cresciuto in un orfanotrofio di Landor, una località immaginaria al confine fra l’Ungheria e l’Austria, che noi lettori incontriamo per la prima volta mentre visita il museo dell’infanzia di Bethnal Green, «il museo delle infanzie altrui». Imi ha compiuto diciotto anni, è entusiasta del nuovo lavoro che sta per iniziare in una caffetteria della catena Proper Coffee e sta realizzando il suo sogno di vivere a Londra. I «parchi immensi dove potersi scordare degli altri e ricordarsi soltanto di sé», che Imi scopre nella Capitale inglese, rievocano il bosco «silenzioso e immobile» vicino all’orfanotrofio in Ungheria: due mondi solo in apparente contrasto quelli di Landor e Londra, un “anagramma geografico” in cui, se lo sfondo è diverso, i silenzi dei personaggi hanno il comune denominatore della complessità interiore ed esistenziale. Per poter conoscere Imi e comprenderne azioni e scelte nel corso della vicenda, dobbiamo familiarizzare con il suo luogo di origine. Ciò non avviene con dei flashback del passato ma con il racconto di ciò che accade contemporaneamente nell’orfanotrofio di Landor a chi ancora vi vive. Ed è così che durante le feste di compleanno assistiamo alle congratulazioni ai festeggiati «come se per gli orfani compiere gli anni fosse un merito, o una prova di coraggio»; vediamo i piccoli gioire per il gulasch, per le fette di torta e per i regali; devono fare grande scorta di questa infantile felicità «in una specie di dispensa interiore: un magazzino dell’anima dove poterla conservare al sicuro, per disporne durante gli inverni dell’anima. Che verranno presto».
Negli angoli di paradiso, lo spazio che ogni bambino ha all’interno del dormitorio e in cui può dare libero sfogo alla fantasia e alla creatività, oltre ai sogni e alle speranze, si celano dolori e turbamenti e Nicola Lecca ci racconta gli intimi pensieri di ognuno di loro, descrivendoci anche il loro silenzio triste ed eloquente. Il piccolo Jonatan per esempio: è giunto da qualche giorno in orfanotrofio, non parla e non mangia; gli è rimasto solo suo padre, un uomo spesso offuscato dall’alcol e terribilmente violento. Il silenzio di Jonatan «è stato il suo unico modo di soffrire. Per lui il dolore è un fatto intimo, segreto. Impossibile da condividere con altri». Mentre a Landor entra in scena Jonatan, a Londra ci viene descritta la solitudine voluta e cercata di una scrittrice Premio Nobel, Margaret Marshall, dal temperamento schivo e malinconico; in lei alberga una profonda sofferenza dovuta anche a una malattia che le ha reso ancora più complicato il contatto con il mondo esterno. Il numero uno della piramide della catena Proper Coffee, il “faraone”, il signor Carruthers, vive invece nel lusso e nel potere: la sua efficiente fretta nel risolvere le problematiche ed una decisione in particolare, portano all’avvicinamento di tutte queste realtà ed esistenze così lontane fra loro e proprio Imi, con il suo sguardo umile e pulito, rappresenta il punto di contatto fra tutti i luoghi e tutti i personaggi regalandoci il sogno di una fiaba che si realizza. Nicola Lecca ha impiegato sette anni per scrivere questo romanzo e in questo periodo ha trascorso, come lui stesso afferma nel blog lapiramidedelcaffe, quasi cinquecento giorni in un orfanotrofio ma dopo aver studiato a lungo la trama, immaginato i personaggi, preso appunti su migliaia di foglietti, in poche settimane ha scritto trecento pagine. Dopo di ciò un lungo e attento lavoro: «Alloggiavo nella pensione di un piccolo villaggio ungherese. C’era una stufa di maiolica verde e la stanza era piena di strani soprammobili e di centrini fatti a mano dalla proprietaria. Da quel giorno ho cominciato a correggere, a limare, a leggere a voce alta, a perfezionare la scrittura. Ed è stato questo il lavoro più lungo e faticoso di tutti: un lavoro che ha richiesto umiltà e pazienza».
La foto che introduce l’articolo è stata scattata da Emanuela Riverso