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La politica prima della finanza

Creato il 09 ottobre 2012 da Conflittiestrategie

Se potessimo adottare uno slogan per l’interpretazione degli avvenimenti mondiali in questo periodo di crisi generalizzata, segnalando al contempo la strada da imboccare per uscire da questo impasse epocale, ribadiremmo un vecchio concetto che sosteniamo da quando siamo nati come sito: la (geo)politica prima della finanza. In una fase in cui tutte le attenzioni critiche sono “dirottate” (il termine non è casuale) sui guasti della sfera finanziaria, sui difetti del mercato, sulla tirannia del denaro e dei suoi duplicati immateriali, sull’immoralità di banchieri et similia, ristabilire l’ordine delle cose ed una corretta interpretazione degli avvenimenti diventa un obiettivo ed una priorità per chiunque non voglia restare alla superficie delle presenti e ricorsive problematiche sociali.

Che in un sistema capitalistico la crisi si affacci innanzitutto in quell’ambito sistemico che prende il davanti della scena è stata spiegato egregiamente da Gianfranco La Grassa in migliaia di pagine. Non ci ripeteremo ma chi ne ha voglia può andarsi a leggere i suoi saggi dell’ultimo decennio (qui ne trovate qualcuno http://www.ripensaremarx.it/) In sostanza, afferma La Grassa, i mutamenti geopolitici in atto (multipolarismo come preludio all’ingresso in una nuova fase policentrica) cambiano le regole del gioco a livello globale interrompendo e modificando il funzionamento di quei meccanismi economici, apparentemente automatici (la mano invisibile del mercato, le regole degli scambi, la competitività internazionale) ma, in realtà, influenzati da una potente mano politica, ideologica  ed anche militare, che regolano i rapporti, codificati in leggi tutt’altro che sempiterne, tra formazioni sociali capitalistiche.

Poiché non esiste più un centro regolatore, o almeno questo sta perdendo quella preponderante forza gravitazionale del passato, controbilanciata dalla nascita di altri poli attrattivi (si pensi allo strapotere americano nel campo occidentale, e non solo, all’indomani della caduta dell’URSS che fece decretare agli ideologi capitalistici troppo zelanti e zeloti “la fine della storia” e l’ingresso nell’era della globalizzazione astatale e solidale a cui oggi, invece, corrisponde l’emersione o la riemersione di competitors internazionali con intenzioni egemoniche che consegnano quelle ipotesi al cimitero delle ubbie propagandistiche) i precedenti assetti sistemici si sgretolano mentre si ridefiniscono i rapporti di forza sullo schacchiere planetaria. Come ho scritto altrove: “Ci troviamo sicuramente all’imbocco di una nuova fase storica di cui la crisi economica costituisce l’elemento “superficiale” di conferma. L’attuale formazione sociale occidentale, nata dalle ceneri del capitalismo borghese di matrice inglese (e che noi abbiamo definito formazione dei funzionari privati del capitale a matrice statunitense), sta perdendo terreno a causa dell’entrata del mondo in una fase multipolare (con l’affacciarsi e il riaffacciarsi di formazioni particolari sulla scena globale e conseguente messa in discussione del predominio della potenza attualmente dominante) che annuncia un più profondo policentrismo, non ancora prevedibile nei tempi di effettiva concretazione. La Grassa sostiene che la crisi economica è di fatto il risultato di uno scontro tra falde tettoniche sottostanti che segnalano il configurarsi di una diversa configurazione geopolitica mondiale. In epoche come queste fioriscono ideologie a “geometria variabile” (vedi il liberismo e il keynesismo) che in una situazione di perdita di egemonia da parte dei gruppi dominanti (tanto all’interno che all’esterno di ciascuna formazione sociale capitalistica) cercano di sostenere la credibilità sistemica con un approccio antitetico-polare che però è mutuo appoggio per uno stesso fine mistificatorio. Lo scopo è quello di creare una cintura protettiva che impedisca di discernere i conflitti in atto tra agenti dominanti i quali, in un periodo di acuta lotta per la riproduzione e il controllo della sfere sociali, non devono essere svelati nella loro intima natura. Il conflitto in essere, pertanto, appare originato nella sfera economica, quella più superficiale, dove i rapporti di dominanza sono più facilmente obnubilabili e dove la battaglia interdominanti per la supremazia assume i caratteri della ipertrofia e della debacle finanziaria. Ma si tratta di una pura traslazione che nasconde sommovimenti profondi di natura politica non rimediabili con interventi e correttivi economici”.

Così, invece, direttamente nelle parole del pensatore veneto: “La crisi non è semplicemente il disordine dei settori finanziari con crollo dei valori dei titoli, perdita di ingenti capitali (e di “risparmi” per i piccoli investitori), fallimenti bancari, ecc; crisi seguita poi da quella reale con caduta della produzione, crescita della disoccupazione, chiusura e fallimento di imprese e via dicendo. Questo è l’aspetto più appariscente, che mette in (giusta e comprensibile) ansia i cittadini, scatena gli economisti e gli “esperti” finanziari in sempre più cervellotiche previsioni e ricette curative, innesca un’alternanza di reazioni di pessimismo e di programmatico ottimismo, induce le autorità ad interventi sempre di breve momento e con scarsi risultati durevoli. La crisi, anche se riguardata dal semplice (assai limitativo e sviante) punto di vista economico, è crescita delle sproporzioni tra settori che, superati certi livelli, lacerano il tessuto complessivo e creano  completa  disarmonia  e  dunque  inceppamento  di  quel  meccanismo  interattivo  tipico  di un’attività lavorativa, i cui prodotti sono merci. Tale forma mercantile aggiunge alla sproporzione quale carattere di una crisi – anche l’anarchia all’interno di ogni settore di attività e nei rapporti tra settori. Malgrado i (vani ed effimeri) tentativi di regolazione, la competizione mercantile non può non essere anarchica salvo che – del tutto parzialmente e per una data fase – nei momenti di decisa prevalenza di certi comparti dell’insieme: in genere si tratta, nelle epoche dette monocentriche, di una determinata formazione particolare rispetto alle altre del suo campo (area) di competenza.  La produzione di merci implica la duplicazione monetaria, con creazione di un settore specifico, detto finanziario, ove l’attività è specialmente frenetica e si sviluppa con ritmi assai veloci, dato che i tempi della sua realizzazione sono in pratica inesistenti in rapporto a quelli necessari nei settori della produzione in senso stretto. La sproporzione prende quindi spesso l’aspetto di una crescita abnorme del settore finanziario rispetto agli altri; ed è per questo che da qui prende generalmente avvio la crisi nei suoi aspetti più appariscenti e anche largamente dannosi per l’intero circuito dello scambio  mercantile,  che  viene  a  bloccarsi.  Quando  ciò  accade,  ecco  levarsi  gli  alti  lai  contro l’immoralità dei tempi, il decadere dei sani costumi dei capitalisti di un tempo, la smania di troppo guadagnare e troppo velocemente; e senza sporcarsi le mani in un’attività produttiva reale. Ecco spuntare inoltre le litanie sull’etica negli affari, che deve tornare a orientare l’azione dei banchieri; ecco alzarsi le reprimende contro l’eccessivo desiderio di lusso e il consumismo sfrenato, il che fa, schizofrenicamente, a pugni con l’invito all’aumento dei consumi come antidoto alla caduta dell’attività produttiva dovuta all’ingorgo delle merci invendute…Una semplice crisi finanziaria, pur accompagnata da gravi (ma momentanei) disturbi ai circuiti dell’attività produttiva reale, è in fondo una sorta di estesa “brufolosi” dell’organismo economico. Se dura, e se prende aspetti sconvolgenti, è allora espressione di mutamenti del sistema mondiale ben  più  consistenti  e  non  riguardanti  la  sola  economia”. G. La Grassa, Cooperazione e Competizione, su ripensaremarx.it http://www.ripensaremarx.it/TUTTI%20GLI%20ARTICOLI/cooperazione%20o%20competizione%5B1%5D.pdf).

Questo è appunto lo stato in cui ci troviamo, il momento storico particolare in cui la crisi finanziaria annuncia mutamenti strutturali della formazione capitalistica mondiale che sono più sostanziali rispetto mera alla regolazione dei processi bancari o ad una legislazione in grado di mettere la museruola ai capitali transnazionali poiché non riguardano la sola economia.

Detto ciò non avremo difficoltà a smascherare quegli imbonitori che confondendo le cause con gli effetti sperano di portarci altrove, lontano dalla galassia politica in cui si fronteggiano gli agenti strategici della lotta per la predominanza, sull’ameno pianeta della finanza dove quel che appare non è o se è si manifesta sotto mentite spoglie.

Prendiamone due a caso. Guido Rossi e Giulio Tremonti. Entrambi stanno conducendo una battaglia a cuscinate etiche contro la finanza ignorando che dietro questa ci stanno i carrarmati pragmatici della politica di potenza degli Stati. Entrambi stanno adottando un linguaggio similrivoluzionario, a tratti persino anticapitalistico, per rimarcare la loro distanza dal mercatismo oltranzista che ha determinato la crisi sistemica globale, calpestando, vite, valori, relazioni umane.

Guido Rossi: “La soluzione alla crisi si sostanzia, dunque, in una riforma che preveda un programma di controllo e di direzione delle forze, non solo politiche, ma anche economiche, nell’interesse della giustizia, della stabilità sociale, e dei diritti fondamentali dei cittadini, che invece sono stati trascurati e continuano ad esserlo, invocando lo stato di eccezione e di paura, che propone nella politica economica assai spesso solo strumenti di austerità, favorevoli agli ingiusti poteri e allo sfrenato arricchimento dei pochi che governano attraverso le degenerazioni del capitalismo finanziario.”

Giulio Tremonti: “La degenerazione del capitalismo si è manifestata per quattro patologie: la nuova tecnica della finanza per cui si è diffusa l’arte di vivere sul debito, la deregulation, gli hedge fund e gli equity fund e lo spostamento sul solo conto economico, senza tenere presente il conto patrimoniale.”

Va da sé che per tutti e due, essendo il problema principale la degenerazione morale soggettiva e collettiva, di banchieri, capitali e imprese finanziarie, per saltare il fosso della débâcle bisognerà imporre un codice morale agli aguzzini della pecunia onde ricondurre il capitalismo nell’alveo dei suoi scopi originari, cioè la produzione di ricchezza sotto forma di beni tangibili. Ma il capitalismo non ha bisogno dei consigli e delle prescrizioni di Rossi, Tremonti o chiunque altro per riformarsi, per passare di ciclo in ciclo, di stadio in stadio, di ricorsività in ricorsività. Poiché questo avverrà “naturaliter” quando dalla lotta tra agenti stretegici a livello globale si compatterà un polo egemone che attualmente non c’è o c’è per uno spazio geografico più limitato rispetto a precedenti periodi storici in cui era riscontrabile una maggiore stabilità degli assetti sistemici mondiali (che non significa equilibrio definitivo o immobilità assoluta).

Diciamo allora che Rossi e Tremonti, che non sono Pinco e Pallino, ma due signori ben inseriti in apparati istituzionali di Stato, di banche e di organismi sovranazionali che rappresentano, dal punto di vista teorico, l’opposizione ideologica interna al Capitale (alla quale viene assegnato lo specifico compito di depistare e di obnubilare la realtà dei fenomeni impedendone la più cogente comprensione) e dal punto di vista politico un aggregatore di creduloni per la dispersione delle forze sociali potenzialmente pericolose.

Alla fine la sintesi la farà ancora il Capitale e la Potenza geopolitica che riuscirà meglio a condizionare gli inevitabili processi storici trasformativi. A noi poveri sciocchi resterà in mano l’etica e la predica ma nessuna capacità d’incidenza sugli eventi.


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