Nella giornata della memoria, pubblichiamo una poesia della poetessa calabrese Daniela Ferraro ispirata alla deplorevole carneficina della seconda guerra mondiale con un commento del critico Lorenzo Spurio a continuazione.
La porta dell’inferno
di Daniela Ferraro
S’apre, improvvisa,
in mezzo al verde
e l’erba stinge
e cessa il vol d’uccelli
e odi il vento
che macera le ceneri
dei dannati immolati
al Dio umano bifronte.
Commento di Lorenzo Spurio
La lirica, costituita da versi lapidari e assai visivi, ci immette in uno scenario di profonda ambiguità e di desolazione nella quale le tinte cromatiche hanno subito un processo di slavatura. Non sono, però, i colori ad aver subito questa operazione di illanguidimento da rendere le tinte vane e difficilmente identificabili, ma sono gli oggetti, la materialità concreta, indicata nell’ “erba” ad essere interessata così non è che leggendo la lirica immaginiamo una erba-non erba cioè a un’entità che ne descriva la sua assenza, piuttosto la Nostra il quell’ “Erba stinge” sembra quasi di vedere i fili d’erba che perdono il colore, che vengono deprivati di una delle loro caratteristiche che l’uomo percepisce per mezzo dell’utilizzo empirico dei sensi. Ma non è l’erba che effettivamente stinge, piuttosto è la vista allucinata dell’uomo, stordita dal disprezzo e vituperata dall’odio che lo porta all’adozione della bieca violenza a non permettergli, quasi come una dura condanna adoperata dalla Natura che dinanzi a ciò è completamente inerme, a distinguere nettamente la tempra cromatica dell’erba, a percepirne con distinzione tale qualità visiva. Nell’abulia dei colori (essi sono assenti non in quanto tali, ma a seguito dell’incapacità dell’uomo di identificarli) si sposa la pesantezza dell’immobilità: gli uccelli, proprio come il verde perso dell’erba, hanno cessato di produrre versi, abiurando alle leggi della loro esistenza nel mondo. Esistono come parvenze, ma anch’essi sembrano aver perso l’anima dinanzi a tanta tribolazione e degrado delle coscienze. Il vento, che la Nostra richiama, e che potrebbe servire a rivitalizzare l’ambiente, a far uscire dal torpore nel quale la natura tutta si è stretta serrando gli occhi sperando in un epilogo veloce delle vessazioni, non è richiamato quale presenza benigna, bensì assume il nefasto carico di morte che aleggia nel campo di lavoro. E’ un vento di morte, putrido e annullante, perversamente pesante e doloroso, la sua aria contiene gli ultimi sospiri della gente a cui è stata data la morte, gli afflati emozionali, gli ansimi di tormento. E’ un vento-miscela, assai più denso e visibile di qualsiasi spostamento d’aria. La percezione dello stesso è motivo d’ulteriore afflizione nella certezza di una condanna atroce da scontare senza aver commesso peccati. La chiusa della poesia, serrata e assai perentoria, nella figura ambigua e difficile di un “Dio umano bifronte”, si riallaccia a quella natura che ha assunto gli elementi del Male, quasi per trasfusione dalle malvagità dell’uomo che in quel luogo opera senza commiserazione e improntato ad una legge snaturata. Il Dio che la Ferraro descrive non è solo “bifronte”, che osserva maledettamente il genere umano con una doppiezza di prospettive, ma si è fatto “umano”, risiedendo nelle carni ormai cenere di ciascun disgraziato che ora vaga in quel vento di morte che soffia con raffiche taglienti come asce. Si faccia silenzio per ascoltare quei fiotti di tormento e allontanarli per sempre.
Jesi, 26-01-2016
La poesia viene pubblicata su Blog Letteratura e Cultura per gentile concessione e con l’autorizzazione dell’autrice.