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La pratica dell’igiene personale: c’è spazio per un’attività educativa?

Da Mariagraziapsi

La pratica dell’igiene personale: c’è spazio per un’attività educativa?

Il momento dell’igiene personale di una persona è un luogo molto intimo e non fa distinzioni di età. È difficile per un estraneo entrare in questa sfera così privata. Questo spazio si trova nella quotidianità di tutti: genitori che si occupano del proprio figlio o figlia, moglie o marito che accudiscono il proprio compagno o compagna in degenza oppure figure professionali come gli educatori che possono ritenere questo spazio molto utile per poter effettuare degli interventi educativi. Ma in che senso la pratica dell’igiene più esser considerata come un’attività educativa?

Sia il setting (luogo in cui si pratica l’igiene personale) che la metodologia (la verbalizzazione di un evento, un pensiero, un’ idea, ecc.) consentono un confronto diretto senza distrazioni o interferenze. Purtroppo non si può fare affidamento alla letteratura poiché quasi nulla è stato documentato o trascritto. Tutto è stato “solamente fatto” e se solo ora si stanno aprendo dei dibattiti tra i professionisti sull’argomento, è perché si sono accorti che anche questo spazio è utile per fini educativi.

In che modo il momento dell’igiene personale può diventare un momento educativo?

Questo delicato intervento è pratica comune in strutture come un centro socio educativo oppure un centro socio-sanitario, in un nido ma anche in un’abitazione privata e spesso eseguono questa pratica educatori, assistenti e familiari che si rapportano con una persona.

Come si è detto prima, il luogo per svolgere l’intervento educativo (setting) è adatto: provate a pensare di dover confidare un segreto a qualcuno; come lo fate? Dove vorreste farlo? Sicuramente in un luogo a voi familiare, intimo, protetto, sicuro e soprattutto lo confidereste ad una persona a voi cara, fidata… giusto? Ecco, qui si apre un’altra parte molto importante dell’intervento educativo: la fiducia. È un concetto molto complesso e primordiale, ma in questa sede non è utile scavare alle origini della parola “fiducia” ne tanto meno come acquisirla. Ciò che è importante sottolineare è che ogni professionista che cerca di utilizzare questo momento per effettuare un intervento educativo deve avere la completa fiducia dell’utente: senza questa componente, tutto l’intervento viene a cadere. In quella sede si possono esporre dei sentimenti da parte dell’utente oppure dei disagi che affronta quotidianamente. La fiducia, quindi, è un elemento che non può e non deve mai mancare in questo tipo di intervento.

La metodologia utilizzata è la verbalizzazione: l’utente comunica con voi attraverso l’espressione verbale e vi comunica un disagio. L’educatore lo accoglie e lo rielabora. Essendo un momento molto delicato e privato, spesso l’utente può confondere questo momento come lo spazio di terapia. Un errore grave che non deve succedere, poiché quello che interessa è la possibilità di intervenire sulla sfera sociale dell’utente e i problemi comportamentali.

Vorrei farvi capire al meglio quanto è importante questo momento portando come esempio il caso di Laura (pseudonimo), un’ utente di cinquantacinque che frequenta il centro socio educativo dove lavoro. Laura ha subito un’ aneurisma (lacerazione dell’aorta cerebrale con conseguente versamento emorragico nell’encefalo causando una forte pressione della materia grigia che porta alla sofferenza della stessa) ed ora è affetta da emiparesi (disturbo derivato dall’aneurisma dove il paziente soffre di una paresi lungo tutto il lato o destro o sinistro per tutto il corpo) sinistra con importanti disturbi cognitivi e comportamentali.

Descriverò di seguito, sotto forma di racconto e di dialogo, il momento e la gestione dell’igiene personale quotidiana di Laura:

“Quando arriva il momento del cambio, poco prima di pranzo solitamente, chiedo a Laura, sin dal primo giorno che lavoro lì,  se deve essere cambiata; la risposta è quasi sempre: “sì Marco!” allora mi avvio con lei verso il bagno, mi fermo al suo armadietto, prendo un pannolone nuovo ed entro in bagno accompagnato dalla nostra operatrice socio-sanitaria…”. Ritengo necessaria la costanza di chiederle sempre se ha bisogno di essere cambiata in quanto questo trasmette in lei senso di accudimento e presa in carico costante, inoltre facilita la creazione di un rapporto di fiducia reciproco. Ritornando al dialogo “… quando siamo nel bagno, le tolgo le pedane dalla carrozzina, metto i freni e mentre io sono di fronte a lei, mi abbasso e la prendo da sotto le ascelle e le dico “Laura, pronta? Al mio tre, io ti sollevo e tu guardi in alto… pronta? Uno, due e tre!” in quel momento lei si solleva e si spinge con la gamba funzionante mentre io la tengo sempre da sotto le ascelle. Sembra quasi un abbraccio, sembra che balliamo; la nostra operatrice socio-sanitaria allontana la carrozzina e comincia ad abbassarle i pantaloni, a pulirla e a cambiarla” facendo stare in piedi una persona emiplegica come Laura, genera fiducia in lei verso di noi, facendole capire che se riusciamo a sostenerla fisicamente, possiamo farlo anche mentalmente; inoltre, tenendola sulle sue gambe e non sdraiandola, le ridiamo per qualche  minuto quella sensazione che non prova da tanto tempo: riuscire a stare in piedi, a guardare una persona in faccia, negli occhi.

Dopo qualche settimana che costantemente ripetevamo gli stessi gesti, inaspettatamente iniziammo a parlare di argomenti sempre più complessi e personali; quando mi accorsi cosa stava succedendo, capii di aver ottenuto la sua fiducia e che quel momento, così intimo e personale, è diventato uno spazio di lavoro per me per riuscire ad effettuare un intervento educativo. E così portai l’argomento in equipe e, di comune accordo, cominciai a lavorare anche in questo spazio. Iniziai “entrando in punta di piedi” parlando di argomenti come la situazione famigliare oppure quali erano i suoi gusti personali. Successivamente feci un passo avanti e cominciai il vero intervento educativo: da quel giorno Laura, durante il momento di igiene personale, talvolta mi comunica un suo disagio o una sua fatica, io l’accolgo, la rielaboro e gliela rimando cercando di fargliela vedere sotto una prospettiva diversa e spingendola a fare degli esercizi di meta-cognizione. Lentamente stiamo levigando alcuni aspetti del suo carattere che si sono accentuati dopo l’aneurisma e questa pratica educativa è stata proposta ad altri utenti che frequentano il centro.

Marco Bonetti

Bibliografia

G.Chiosso, I significati dell’educazione.Teorie pedagogiche e della formazione contemporanee,Mondadori, Milano, 2009, pp. X-262.



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