Stavo pensando (ogni tanto mi capita ancora) a che ricordo rimarrà a Mimi di questa casa in cui si è trovata a vivere sin dal giorno della sua nascita, questa casa che si è ritrovata come sua.
Come se fosse scontato, senza sapere come né perchè, senza chiedersi cos'è che ci ha portato qui, senza pensare che potrebbe esser stata un'altra casa, magari, la sua prima casa.
Lei l'ha semplicemente acquisita come realtà di fatto: a chi appartiene questa casa? A noi, che ci viviamo, ovvio. Lei questa casa la sente come sua, come LA sua. Come è giusto che sia.
Mi fa tenerezza quando a volte usciamo da scuola in compagnia di qualche amichetta e lei si fa avanti, tutta caruccia e propone: "Maua/Emma/Pedeica, vuoi venile a cada mia? Che ti faccio vedele la mia cada?"
Naturalmente nessun'amichetta è mai "venuta a casa sua", e in questo gioca anche la mia inossidabile resistenza a schiudere al mondo "regolare" i misteri inconfessabili della mia situazione abitativa. Magari prima o poi, chissà, supererò questa mia tara, questo mio senso di inadeguatezza, ma per ora la nostra casa per me continua a rimanere quella dimora provvisoria e arrangiata che era sin dal primo giorno in cui ci ho messo piede (appena possiamo ne cerchiamo una migliore).
Per lei no.
Natale dalla nonna: non c'è stato giorno che non mi abbia ricordato che quella non era casa sua, che lei voleva dormire a casa sua, nel suo letto, non passava giorno che non mi chiedesse: quand'è che torniamo a casa nostra? E non che dalla nonna sia stata male, anzi! Ma la festa che fece il giorno in cui siamo rientrate poi alla base ha avuto del commovente, con lei che girava di stanza in stanza ripetendo: "Che bello che siamo tonnati a cada! Che bello mangiale a cada! Che bello fare la cacca a cada nostla!"
Insomma, per lei la Casa con la maiuscola, la sede dei suoi primi ricordi, dei suoi legami emotivi, delle sue sicurezze di bimba, è questa, questa scalcinata, amataodiata dimora provvisoria, dove ci sentiamo precari ormai da quasi otto anni.
Perché, si sa, la prima casa è sempre la più bella che tu abbia mai avuto.
Per voi non è così?
Ah, per me sì.
La mia prima casa era proprio bella, la più bella che io abbia mai visto, la più bella senza dubbio in cui io abbia mai vissuto, e la migliore in cui io potessi mai aver vissuto. E se non ci credete ora vi dò un sacco di motivo per convincervi di ciò.
La mia prima casa, quella all'ottavo piano, era la più bella di tutte le case esistenti, perché era al piano più alto, e da lassù potevi vedere lontaniiiiissimo affacciandoti alla finestra di camera nostra, e potevi anche fare la gara di sputi sulla serranda del signor Naclerio, del piano di sotto, e potevi guardare le macchine in strada che sembravano le nostre Micro-Machines e scommettere sul colore della prossima che avrebbe girato la curva, e contare i Maggiolini che passavano, e gridare qualcosa ai passanti e poi nasconderti e non farti vedere quando quelli alzavano la testa guardandosi intorno spaesati.
Poi era bella perché da casa nostra si arrivava facilmente su in terrazza, nella grande terrazza condominiale, e avevamo un sacco di spazio per pattinare, e siccome eravamo coraggiosi e non avevamo paura di cadere andavamo a pattinare al di là del parapetto, almeno finché qualcuno dai palazzi vicini non ci urlava di tornare dentro, e allora, seccatissimi, dovevamo smettere.
Era bellissima, casa nostra, ma la cosa più bella era la nostra camera, tutta arroccata di scale di legno, e scaffali in cui infilarsi e a cui appendersi, e cassetti e scrivanie a scomparsa, e letti apribili, e un enorme armadio dove infilarsi quando si giocava a Strega di mezzanotte (c'era da essere orgogliosi di quella camera, quando qualcuno veniva a trovarti), e tutti i nostri giochi e giocattoli, generazioni e generazioni di giocattoli ereditati o sempre esistiti, e inventare storie e percorsi e villaggi, far incontrare i Lego con i Play-Mobyl, schierare gli Exogini contro gli Happy-Potami, far salpare i Puffi a bordo dello skate-bord... e i piumoni rossi invernali lasciavano posto ai copriletti a motivi peruviani sui nostri tre materassi in fila, alla parete, nella mezza stagione, e il sole che ci arrivava di pomeriggio a tingere tutto di colori caldi, e la carta da parati in gommapiuma tutta grattata dalle unghie dei gatti...
Ma poi anche il resto della casa era bellissimo, anche se la nostra camera era di gran lunga il pezzo forte della casa.
Per esempio c'era un lungo, lungo corridoio per farci le scivolate coi calzini.
E poi c'era un grande salone, grondante tralci di filodendro dalle pareti e dal soffitto, con un lungo lungo divano murato, con grandi cuscini arancioni, che si prestavano alla grande a diventare capanne su uno o due piani, dove accamparsi e improvvisare rifugi di fortuna. C'erano le due poltrone di legno a dondolo per andarci a cavallo, ma dovevi stare attento a non infilare le dita in mezzo alla molla, o te le schiacciava. E il pianoforte a muro col suo bravo sgabello girevole.
C'era il tavolino basso di mattonelle, ribaltabile, nel senso che se per distrazione ti appoggiavi troppo ad una delle due estremità, ti si ribaltava l'intero piano, perché poggiava semplicemente su due trespoli di ferro battuto, e quando si ribaltava venivano giù tutte le mattonelle, e allora toccava fare un laborioso lavoro di restauro-lampo, tipo tessere di un puzzle astratto, e rimetterle al loro posto. Che poi a volte lo facevi anche apposta,a rovesciarlo, per poterti cimentare nel puzzle delle mattonelle. Però era un disastro quando la sera ci portavamo i piatti della minestra per poter cenare in pace davanti alla tv, mentre mio padre friggeva i Sofficini. Allora bisognava stare attenti, al tavolino ribaltabile, o rischiavi di buttarti tutto il brodo sulle gambe, ed era caldo!
E poi cuscini, cuscini, cuscini per sdraiarsi a terra, e il tappeto sardo peloso con la grande chiazza marrone di quella volta che col Piccolo Chimico prese fuoco...
E poi c'era anche la sala del tavolo lungo, che era davvero lungo, e ci potevi stare sdraiata per intero, sulle sue piastrelle azzurre fiorite, e ancora avanzava spazio. Arsenali di fogli da disegno e scatole di Stabilo, ben schierati per la battaglia, bicchieri d'acqua colorata pieni di pennelli, tempere e acquarelli e fogli di giornale che subito finivano inzuppati: quante mappe del tesoro furono realizzate su quel tavolo, quante pergamene, quante "guerre di Saddam" furono documentate con minuzia certosina, tra gli omini verdi e quelli blu e quelli gialli (il guerrafondaio in realtà era solo mio fratello Ergino, ma la stesura di quel progetto colossale ben presto appassionò anche me).
E poi la grande terrazza traboccante di piante, che pareva un giardino pensile di Babilonia, ed era il nostro pezzetto di "fuori" privato, dove noi un giorno piantammo in vaso i nostri dieci pinoli, chiedendo impazienti quando sarebbero diventati alberi, e rimanendo delusi alla risposta: almeno una ventina d'anni. E invece ora sono davvero alberi, anche se ne sono rimasti forse tre o quattro, e non ci si crede che furono piantati per gioco da due bambini su una terrazza all'ottavo piano, tanti anni fa...
Anche la nostra cucina era bellissima, comunque, per quanto piccola, perché a frugare bene tra le credenze saltava sempre fuori qualcosa da spiluccare, e se non trovavi niente potevi sempre improvvisarti qualche frittella di banana: la ricetta era top secret, ma comunque la cambiassi veniva sempre fuori qualcosa di abbastanza commestibile da meritare gli onori dello stomaco.
Ah! E poi c'era la camera dei miei genitori, dove potevi saltare sul lettone grande e fare i campionati di Wrestling e lotta (due discipline molto diverse, non vi sbagliate), ma sempre stando attenti a non far piangere nessuno, che se no poi arrivava mia sorella dalla camera accanto e ci maziava un po' tutti, ché lei era sempre alle prese con le sue lingue astruse, il greco e il latino, e ripeteva tutto il giorno ton-ton-ton, toin-toin-toin allo sfinimento, e chi lo sa che vuol dire?
Insomma: vi ho convinto?
La mia prima casa era senz'altro la casa più bella che io avessi mai visto.
Chissà allora perché poi dovemmo cambiarla. Crescendo mi è parso di capire che sia stato per questioni di eredità, proprietà catastale, cose da grandi, comunque.
Ci tornai solo una volta e rimasi sconcertata dal trovare tutto stranamente più piccolo di come lo ricordassi, un po' vuoto e "impoverito".
Le case hanno questo guaio: che se le abbandoni si rattristano, e perdono smalto.
Potessi riavere quella mia prima casa così come la ricordo! Nessun IMU potrebbe mai farmi desistere dal desiderio di riaverla, quella mia prima casa!
(Foto di repertorio)