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La Prima Cena

Da Parolesemplici

Nouvelle cousine

Quella mattina stavo setacciando gli annunci di lavoro. Non so perché lo facessi, ma ogni mattina guardavo quei due o tre siti, in Internet, per trovare qualche degradante soluzione per la salute della mia tasca. Erano tutti simili, gli annunci.

A un tratto mi fermai: “Cercasi cuoco esperto in piatti di pesce”. Non so perché lo guardai, non so cosa mi attirò. Non ero mai stato cuoco.

Preparai un Curriculum adatto, in cui immaginai scuole, seminari, formazione, esperienze. La facilità delle comunicazioni moderne! In mezz’ora ero uno chef di rara abilità. Specializzato in piatti di pesce.

Inviai il documento al datore di lavoro. Mi telefonò dopo qualche ora. La sera mi presentai al locale.

Il ristorante dava su una strada piccola, frequentata da persone a modo. Non passavano auto.

Il proprietario, quello della telefonata, era vestito come se avesse un qualche lavoro in Borsa, più che un ristorante. Il locale era un’estensione del suo aspetto, minimale, tecnologico, freddo. Uno di quei posti in cui la gente è disposta a sborsare un mucchio di soldi per mangiare un piatto di niente.

Mi strinse la mano, si disse impressionato dalla mia esperienza. Non pensò di verificare nemmeno una delle voci. Mi chiese perché mi fossi liberato della mia catena internazionale di punti di ristoro, inventai lì per lì che il gusto non aveva più i cultori di una volta. Lui annuì con aria grave.

Mi chiese di servire dei piatti, a lui e a sua moglie. Meritavano di sapere cosa avrebbe offerto da allora in poi il loro locale, in fondo. Mi indicò la cucina. Mi disse che avrei trovato pressoché tutto.

Una volta in cucina, una sorta di cabina di pilotaggio di una grande astronave, indossai grembiule e berretto da cuoco: basta così poco per entrare a far parte di un mondo, uno qualsiasi.

Dal frigo uscì un insostenibile fetore di pesce. Puntai a una grossa cassetta contenente centinaia di fettine di pesce spada.

Mi persi per lunghi minuti in meandri ed anfratti, e ne uscivo fuori ogni volta con gli ingredienti più disparati, e con sempre maggior foga, ipotizzando già – eccitato – piatti mai immaginati prima. Il primo piatto fu composto da un tappeto di pesce spada marinato in salsa worcester, condito con un tritato di prezzemolo, aglio e banana, accompagnato da alcune pennette cotte al vapore e immerse in un brodo di sedano, asparagi e pomodori secchi. Poi mi dedicai ai frutti di mare, ai quali sono allergico. Inventai, quindi, per ridurre al minimo il contatto, il metodo “panatura”, consistente nel tenere le mani costantemente umide e ricoperte di farina di mais. Ero un vulcano di creatività: il gusto adattava alle sue esigenze anche le abitudini e le necessità. Creai quindi il mio secondo nuovo piatto, una raggiera di grissini serviti con una mousse di seppioline, calamari, cozze, vongole e gamberi – il tutto quindi precedentemente frullato con aggiunta di panna per dolci, lievito di birra e zucchine – adagiata su rotelline di totano in pastella, fritte in olio di semi di girasole.

Il colore grigio conferiva al piatto un’aria astrale, metafisica: lo chiamai “La Via Lattea del Mare”.

Guardai l’orologio, era già quasi l’ora concordata per servire la cena di prova ai coniugi titolari. Decisi che due piatti erano sufficienti, ma sarebbe servito un dessert. Realizzai quindi un sorbetto di erbe marine – che ottenni immergendo in abbondante succo di limone quegli avanzi vegetali che rimangono dalla pulizia delle cozze –, lo mescolai in parti uguali allo Champagne, e lo preparai in dei flutes, pronto da bere, dopo averlo unito a del ghiaccio tritato.

Mi sedetti tra i due, uomo e donna, mentre mangiavano. Ora strabuzzavano gli occhi, il minuto successivo erano presi da un’improvvisa abbondante salivazione, poi ancora dovevano ricorrere a molti bicchieri di vino. Ogni tanto, alternativamente, si fermavano pensosi, con lo sguardo perso lontano oltre la testa dell’altro. Alcune volte si bloccarono con la forchetta in bocca, annuendo al pesce morto, come se quello gli avesse fatto una domanda.

Definirono quel pasto “un’esperienza”. Mi offrirono 3.450 euro al mese. Il ristorante diventò un punto di riferimento a livello europeo. Io inventavo piatti nuovi a cadenza mensile, e non mi lamentavo. La coppia di proprietari si rammaricava solo per due piccolezze: non potevano aprire filiali, dal momento che io mi rifiutavo di divulgare le mie ricette; e il fatto che io non mangiassi mai quello che creavo. Era evidente, si diceva, il mio amore quasi paterno per quei miei figli.

 


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