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La prima volta.

Creato il 30 giugno 2014 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Credo che la scrittura assomigli molto all’istinto di sopravvivenza. E’ cercare costantemente di poter dare un significato a quello che viviamo. Una ricerca quasi ossessiva, uno scavare a mani nude nella dura terra per sconfiggere la superficie. E’ difficile perché le parole giuste per le emozioni sono come piccoli diamanti, a volte sfuggono persino al setaccio più attento. Sono grezze, brillano solo quando le usiamo.

Sul traguardo di Fondo, pochi metri dopo la linea d’arrivo, mentre i corridori stanno percorrendo l’ultimo giro penso alle quattro ore di macchina che ho fatto per arrivare qui e al tempo che ci ha graziato. Davano pioggia, invece il Campionato Italiano si è corso sotto il sole che, tra qualche nuvola, illuminava le distese infinite di meleti in queste valli. Penso che Daniel Oss con la sua azione, con il suo essere solo con sé stesso e le sue gambe, senza una squadra, completamente outsider, mi ha fatto rivivere quella pazza corsa sulla strada che porta su al Vajont di un anno fa. Come quella volta ha inseguito il suo sogno senza risparmiarsi.

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Penso che, da quello che dice lo speaker, Davide Formolo che è un ragazzetto di neanche ventidue anni sta attaccato alla ruota di Vincenzo Nibali. Il Nibali che ha vinto il Giro d’Italia lo scorso anno. Il Nibali che vuole quel tricolore per portarselo al Tour e adesso tenta di spezzare gli avversari con uno scatto dopo l’altro, quelli secchi che servono a scrollarsi di dosso le ruote che danno fastidio. Pagano tutti, chi prima chi dopo. Tranne quel Formolo che proprio non se ne vuole andare. Sono cose che immagino perchè il maxischermo è lontano, mi disegno l’azione nella testa mentre lo speaker parla. Arrivano i massaggiatori, le moto, i fotografi sono già pronti e l’ultimo chilometro è interminabile. Nibali, Formolo, Nibali, Formolo. E’ tra loro due, non si scappa. L’arrivo è un lampo azzurro. Vincenzo Nibali alza il pugno al cielo e urla, di un urlo che non si sente perché c’è la gente che applaude, che grida, che si sporge dalle transenne quasi a volerlo toccare. E’ il nuovo campione eppure è sempre il nostro stesso campione. Vincenzo è il nostro simbolo, qualunque cosa venga detta lui rimane un pezzo di noi, del ciclismo che fa radunare proprio tutti. Come l’anno scorso, a Brescia, dove si cantava l’inno a squarciagola, sudati, vicini, con la mano sul cuore. Siamo debitori verso chi ci regala momenti come quelli, come questi.

Vincenzo sale i gradini del podio con in braccio la sua bambina dagli occhi grandi, stupiti. E’ commosso.
Un signore con i capelli grigi e la faccia abbronzata mi chiede con incredibile gentilezza se posso fargli qualche foto con la sua macchina fotografica. “Io non ci vedo bene” spiega. Gliene scatto qualcuna e poi lui mi dice emozionato: “E’ la prima volta che vedo Nibali. E’ la prima volta che lo vedo dal vivo.
E quelle parole dette così, che sembrano perdersi nel marasma di quella premiazione felice, mi si attorcigliano all’anima. Non so spiegare perché certe cose restano dentro più di altre. So che a quel signore avrei voluto stringere le mani, so che non esistono parole per restituire quel tono di voce appassionato e ingenuo. Mi sono venute le lacrime agli occhi. Per tutto. E non importa se il mondo con la sua scontatezza ha fatto diventare certi sentimenti inutili, patetici. Ho pensato alla prima volta che ho visto il ciclismo dal vivo, a com’ero, alla mia piccola compatta con la quale scattavo foto a tutti. Ho pensato alle prime volte che guardavo i nomi scritti sulla bicicletta per trovare quelli per cui facevo il tifo, alle prime volte che ho sentito il profumo delle divise nuove e me ne sono innamorata. Mi dimenticavo di mangiare, e a dire il vero lo faccio anche adesso, per paura di perdermi un piccolo istante prezioso. Ci sono ancora tutti questi riti, è vero. Però la tenerezza e lo stupore autentico delle prime volte si ripete solo in certe occasioni speciali. Non sono segnate su un calendario, arrivano d’improvviso, come un  temporale estivo. Le ho riprovate di nuovo davanti a Vincenzo in tricolore, davanti a quel ragazzo che mi sembra rappresentare l’Italia alla quale voglio bene, il nostro lato buono. Le ho riprovate sentendo quel signore che mi diceva, quasi come una confidenza: “E’ la prima volta”.

In macchina verso l’autostrada, lasciando dietro di me la dolcezza malinconica della festa finita ho pensato a lui, a quell’uomo che è tornato a casa con la sua compatta. Avrà fatto vedere le foto a sua moglie, ai suoi figli, forse anche ai suoi nipoti. Forse la domenica mattina, al bar, davanti al quotidiano e agli amici di sempre avrebbe raccontato di essere stato lì, in prima fila davanti a Vincenzo che stappava lo champagne. Di averlo visto dal vivo, dopo averlo guardato tante volte in televisione, sulle salite più dure.

Anche rivoltando l’anima come un calzino non si riusciranno a trovare le parole giuste per tutto quello che nel ciclismo viene, va e poi lascia l’impronta come di una cicatrice, come di un abbraccio. Eppure voglio continuare a scavare a mani nude in questa terra che è la mia terra, il posto dove i diamanti si nascondono ma non sono poi così difficili da trovare. Dobbiamo solo imparare a distinguerli dai sassi.

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