Il 19 ottobre scorso La “Primavera Araba” un anno dopo, secondo numero di “Geopolitica”, è stato presentato presso il Museo di Roma in Trastevere. Tra i relatori anche Paola Saliola, ricercatrice associata dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie), il testo del cui intervento è riprodotto di seguito.
I processi storici sono sempre complessi poiché vi concorrono una pluralità di concause e fattori contestuali. Anche se isolare determinati fattori può essere utile e talvolta giustificabile per spiegare dinamiche interne ai fenomeni, si tratta pur sempre dell’osservazione e descrizione di un unico lato d’un oggetto che è invece multisfaccettato. Ciò si può applicare anche alla cosiddetta “Primavera Araba”. Per essa sono state avanzate due interpretazioni estreme, opposte ma parimenti riduzioniste poiché tengono conto d’un solo insieme di fattori escludendo gli altri.
La prima di queste è quella che descrive l’evento unicamente come frutto di cause interne al mondo arabo. Essa sostiene l’assoluta spontaneità delle rivolte e spesso guarda al fenomeno con una partecipazione personale ed entusiastica. Lo stesso termine giornalistico di “Primavera Araba” deriva da tale visione ottimistica. Di converso un’altra tendenza vuol fare derivare quanto accaduto nel mondo arabo negli ultimi due anni circa dalla mano invisibile di una cospirazione orchestrata dall’esterno, in particolare dalle potenze occidentali per accrescere la propria influenza sulla regione. Questa visione è, al contrario, totalmente pessimistica, anche perché solitamente avanzata in ambienti anti-imperialisti e terzomondisti che guardano dunque con ostilità all’Occidente.
Se vogliamo però osservare il fenomeno delle rivolte arabe in tutta la sua complessità dobbiamo allora accettare il fatto che a concorrervi siano state sia cause endogene sia cause esogene.
Cominciamo dalle cause endogene. L’interpretazione giornalistica inizialmente egemone – ma che ora sta progressivamente perdendo seguito – vedeva nelle rivolte la sollevazione di giovani coadiuvati dai social network e animati da una sensibilità occidentalizzata, desiderosi di portare la democrazia liberale nel mondo arabo. Pur rifiutando le esagerazione ottimistiche ed ingenue di questi giornalisti, non si può però negare l’anelito delle popolazioni arabe verso regimi politici più aperti dopo decenni di dittature più o meno repressive. Inoltre le rivolte arabe si accompagnano spesso all’ascesa di movimenti cosiddetti islamisti. Oggi è facile notare ciò, ma già nei primissimi mesi del 2011, quando era pressoché incontrastata l’anzidetta interpretazione liberal-democratica delle rivolte, il peso dell’Islam politico nel fenomeno era stato chiaramente individuato in una pubblicazione dell’IsAG, Capire le rivolte arabe, di Pietro Longo e Daniele Scalea. L’ascesa dell’Islam politico non è una novità degli ultimi mesi ma una dinamica ormai in atto almeno dagli anni ’70 e che affonda le sue radici in epoca ancora anteriore. L’ideologia nazionalista panaraba e per certi versi laica, che fu egemone nel mondo arabo dopo la decolonizzazione, è presto entrata in crisi a causa dei suoi fallimenti in campo politico ed economico. Le diatribe tra i vari leader nazionali impedirono qualsiasi unità dei Paesi arabi. Le guerre contro Israele si conclusero con una Naksah, sconfitta, ed infine con paci separate da parte di alcuni paesi. Lo sviluppo economico del mondo arabo si è presto fermato, e sul piano interno i regimi hanno perso ogni legittimazione morale ed ideologica mantenendo in piedi solo l’apparato repressivo. E’ in questo clima che l’islamismo ha potuto affermarsi come ideologia e programma politico alternativo.