Andando a cercare i precedenti tra Italia e Croazia, le statistiche ufficiali indicano come primo incontro la partita del 1994 giocata a Palermo, valida per le qualificazioni a Euro 96 e persa 1-2 dagli azzurri di Sacchi contro i motivati (la Croazia era da pochissimo tornata a essere tale) e talentuosi avversari. Tra le fila dei biancorossi figuravano i vari Davor Šuker – autore di entrambe le reti – Zvonimir Boban e Robert Prosinečki, giusto per citarne alcuni. Per individuare il primissimo incrocio tra le due nazionali, però, bisogna tornare a un’amichevole datata 5 aprile 1942, durante la breve parentesi di indipendenza croata pur sotto l’egida nazifascista. È necessario quindi un passo indietro.
Ante Pavelić
Dopo la prima guerra mondiale, con il Trattato di Versailles la Croazia entrò a far parte del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, che durò dieci anni come monarchia costituzionale. Fu poi sostituito il 6 gennaio del 1929 dal Regno di Jugoslavia, una vera e propria dittatura che ruotava intorno alla figura di re Alessandro Karađorđević, la cui intenzione era quella di annullare le velleità separatiste delle varie regioni, inaugurando così la politica dello jugoslavismo integrale.
Ma Il suo successore, il reggente principe Paolo Karađorđević, cugino di Alessandro (il figlio del re, Pietro, aveva solo undici anni), allo scoppio del secondo conflitto mondiale non tardò a dichiarare la neutralità del regno, convinto che serbi e croati non sarebbero stati disposti a combattere fianco a fianco. Trovatosi però circondato dalle occupazioni tedesche e in parte anche italiane (perlomeno tentate, come in Grecia), Paolo nel marzo del 1941 aderì all’Asse, in cambio della promessa da parte della Germania di non combattere in Jugoslavia le truppe britanniche in marcia verso il fronte greco. Questo atto provocò un tentativo di colpo di stato, appoggiato dall’Inghilterra. Per scongiurarlo, le truppe tedesche iniziarono la loro avanzata verso Belgrado, già sotto le bombe della Luftwaffe. Tra tutti gli spezzettamenti provocati dall’invasione dei soldati nazisti nell’ormai ex regno [1], sorse anche lo Stato indipendente di Croazia (NDH). Era nominalmente una monarchia savoiarda, ma in realtà si trattava di una tremenda dittatura [2] controllata da Ante Pavelić e dal suo movimento ultranazionalista ustaša, istituzionalmente forgiata a immagine e somiglianza dell’Italia fascista, che insieme alla Germania ne occupava anche il territorio – nel caso italiano all’insegna dell’irredentismo verso la penisola dalmata, cavalcando lo slogan “Mare Nostrum” (vi ricorda qualcosa?).
La federazione calcistica croata era, invece, già nata il 6 agosto 1939, quasi due anni prima, a causa di dissidi con la Federazione del Regno di Jugoslavia.[3] Una “nazionale” croata non ufficiale, nel 1940 aveva disputato quattro amichevoli contro Svizzera e Ungheria, ma i suoi effettivi facevano contemporaneamente parte anche della selezione del regno. Poi arrivò il riconoscimento dalla FIFA nel 1941, poco dopo l’inizio della dittatura di Pavelić. Tra il 1941 e il 1945 la Croazia giocò una quindicina partite (amichevoli, le competizioni erano ferme a causa della guerra), la prima di esse contro la Slovacchia pareggiando 1-1 a Bratislava. In mezzo a questi incontri non poteva non esserci spazio per le nazionali dell’Asse. Per l’Italia, soprattutto, quale occasione migliore di una partita di calcio per pubblicizzare uno stato satellite, perlopiù così gentile da far piantare il capriccioso tricolore sulla Dalmazia? Nessuna, e infatti la Federcalcio la organizzò, a Genova, come già detto il 5 aprile del 1942. Quell’amichevole di regime fu la penultima partita giocata dalla nazionale italiana, prima che il dilagare del conflitto costringesse i vertici della FIGC a non usare più gli azzurri e il calcio come mezzo di distrazione e propaganda.
Gabetto segna il primo gol azzurro. Da La Stampa del 6 aprile 1942
La Stampa parlò di “viva attesa” nella città ligure, annunciando che i giocatori di entrambe le squadre renderanno omaggio ai “caduti fascisti” prima di scendere in campo, facendo inoltre trapelare preoccupazione per l’arbitro Fink (tedesco, chissà come mai), che alla vigilia della partita ancora non si era fatto vivo.[4]
Il direttore di gara alla fine arrivò, e la partita si disputò sotto un improvviso temporale che influì sia sulla presenza di pubblico (15.000 i paganti, “per un incasso di sole 155.000 lire”), sia sul gioco.
“Le due squadre lottarono contro l’intemperia a viso aperto. Lottarono fino a infracidirsi entrambe. A metà tempo (…) i croati, pur di avere panni asciutti indosso, abbandonarono la maglia nazionale, e comparvero in campo con una magliettina bianca, senza stemma, imprestata dal Genova affrettatamente”. Nel secondo tempo la pioggia cessò, permettendo a Gabetto, bomber del Torino, di sbloccare il risultato “con un tiro che pare debba sfondare la rete” raccogliendo un assist di Biavati del Bologna (di cui si narra sia l’inventore del “doppio passo”), che dopo qualche minuto mise anche Pietro Ferraris II, in forza alla Pro Vercelli, nelle condizioni di siglare il 2-0. Gli azzurri ne segnarono in tutto quattro, con Biavati e Grezar – altro granata poi morto a Superga -, nel giro di tredici minuti.
I croati provenivano tutti dalla stessa squadra, l’Hask Građanski Zagabria, ma questo fu più un limite che un vantaggio: essi, infatti, continuarono a lottare come “un’unità compatta”, che “possiede un giuoco”, “applica il sistema” e “fa belle combinazioni a metà campo, ma non penetra, non perfora”, insomma, non tira in porta.
Prima del fischio finale riprese a piovere “e la cortina dell’acqua è come un sipario che cali lentamente sul periodo di fulgore e di efficienza” per i ragazzi di Pozzo campioni del mondo in carica. Andava così in archivio questa partita a tratti surreale, che nella storia della nazionale azzurra sarebbe stata ricordata solo per un motivo: l’esordio di Valentino Mazzola, ventitreenne che stava passando dal Venezia al Torino e che era destinato a diventare un gigante del calcio italiano.
daniele
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[1] La Germania si impossessò di parte della Slovenia e del Banato,mentre il governorato italiano comprendeva la Dalmazia, come detto, parte della Slovenia e la costa montenegrina. L’Ungheria si prese la Voivodina e parte della Croazia. Il Kosovo fu unito all’Albania insieme ad alcuni territori della Macedonia, in parte inglobata dalla Bulgaria. A Belgrado si insediò un governo filonazista che amministrava un territorio limitato quasi alla sola Serbia, capitanato dal generale Milan Nedić, che fu contrastato dai nazionalisti conservatori cetnici di Dragoljub Mihailović e soprattutto dai partigiani antifascisti di Tito.
[2] Il regime di Pavelić fu estremamente cruento, caratterizzato da una feroce persecuzione di serbi, ebrei e rom; si stimano tra 330.000 e 390.000 uccisioni, più di 75.000 solo nel famigerato campo di concentramento di Jasenovac .
[3] In realtà una raffazzonata selezione croata, guidata da Hugo Kinert, aveva già disputato un paio di partite tra il 1918 e il 1919.
[4] Virgolettati tratti da La Stampa del 5 e del 6 aprile 1942