Paula Rego
Girava per la Firenze di molti anni fa, indisturbata ed arrogante, vecchia e sfrontata, con sempre un mazzo di fiori in mano e vestita trionfalmente di rosso.
La chiamavano tutti "la Principessa", con un tono a metà tra il divertito e il convinto. Era la Firenze bottegaia e minuscola di una volta, il centro era davvero un paese, in cui tutti i vecchi fiorentini storici si conoscevano, soprattutto quelli che compravano e vendevano, quelli che continuavano il mestiere dei banchieri e dei mercanti del Rinascimento, con quei volti scolpiti nella stessa pietra serena dei palazzi, con quelle labbra strette come per difendersi dal vento di tramontana di tanti inverni.
E lei era parte di quel mondo: una povera pazza, perduta nel suo mondo e nei suoi sogni di vecchia, un relitto di un mondo lontano che chissà come aveva cullato e coltivato il suo sogno e la sua innocua follia.
Non ne giravano molti, all'epoca, di questi derelitti, soli ma che soli non erano mai del tutto.
Un'intera città, un quartiere, li conosceva, li nutriva, li difendeva.
L'abitudine a vederli, a sentire le loro fole gridate per strada, era anch'essa una difesa e una intimità.
C'era anche un uomo, piccolo, spaurito, che girava per il mio quartiere, gridando la paura della guerra e del campo di sterminio al quale era sopravvissuto, ma che gli aveva rubato la mente. Lo seguiva spesso la moglie, scarmigliata ed affannata, cercando di calmarlo, di riportarselo a casa.
Ma la Principessa era diversa, la principessa era sprezzante, apostrofava in malo modo chi non fosse più che pronto o cederle il passo, chi non la salutasse in modo abbastanza deferente. Ero incuriosita: si diceva che fosse davvero la figlia illegittima di un re, che lo credesse per lo meno.
Mio padre raccontava che non era mai stata tanto irosa e tanto vociante come in quei giorni in cui venne una regina vera, in visita a Firenze. Sentiva, forse, in pericolo il suo fragile regno.
Chissà chi era davvero. Ogni tanto, quando supero la lunga fila di barboni accucciatia difendere i loro posti lungo il marciapiede della stazione, penso a loro, al sopravvissuto allo sterminio, alla principessa. Ma soprattutto a lei, al suo vestito rosso, il cappotto rosso, le scarpe rosse, la borsa rossa, il rosso scarlatto rossetto su quelle vecchie labbra screpolate.
Ha vissuto comunque un mondo migliore anche per quelli come lei, soli, disadattati, senza radici e senza futuro.
Almeno lei ebbe un presente meno disumano. Un presente rosso.