Nata a Roma, la principessa Francesca Ruspoli si sentiva italiana ma cosmopolita. Dichiarava: “Sono irlandese e americana da parte delle mie nonne, austriaca, inglese e italiana dai miei genitori“. Questo mix di sangue colava letteralmente in lei facendola diventare una cittadina del mondo che ha però sempre vissuto in Italia, in Francia, in Svizzera e in Inghilterra, salvo poi fermarsi definitivamente davanti alla sua Marrakech, dove ci arrivò per caso, alla ricerca del sole. Con suo figlio Giancarlo Rocco di Torre Padula, nato dal suo primo matrimonio, si installò al Mamounia. “Passavo le mie giornate al sole, uscivo raramente per visitare la città e i suoi dintorni“, raccontava la principessa. Dopo qualche tempo fu sedotta dalla favolosa valle di Ourika, dove sui figlio trovò per lei una proprietà e, entusiasta, gli propose di acquisirla. Dopo la sorpresa iniziale la principessa accettò la proposta iniziando nel ottobre 1970 la costruzione della sua futura dimora, su di un terreno situato a 1.000 mt di altitudine, in un oliveto con 4.000 alberi circondato dalle montagne dell’Atlas, le più alte del nord Africa. La principessa stabilì le linee guida della casa aiutata da un capo cantiere della Martinica, Monsieur Virapin. I lavori durarono due anni e mezzo e fu necessario installare l’acqua potabile e l’elettricità, inesistenti. Tonnellate di terra furono trasportate sul sito per rassemblare e livellare tutta la superficie della casa su di una profondità di oltre un metro e mezzo, dopo aver scoperto l’argilla a due metri e mezzo di profondità. Avendo sempre preferito la campagna alla città, Francesca Ruspoli volle la sua “maison” semplice, calda e rustica, privilegiando ambienti spaziosi dove la luce e lo spazio, la texture e il colore, la forma e le linee, fossero privilegiate. Tutti i mobili inseriti ebbero un impronta naturale e funzionale, scaturiti dalle mani di artigiani marrakchis. Basti pensare che la tavola in cedro della sala da pranzo, con un diametro di oltre tre metri, richiedette la costruzione di una colonna in cemento armato per posizionarla. Immense le camere e stravagante è il dressing simile ad una tenda caïdale dove la proprietaria inserì le sue eleganti toilettes principesche, preferendo di gran lunga jeans ed espadrilles. Una ventina di domestici e giardinieri sono serviti per la manutenzione del dominio dove sono state impiantati oltre mille alberi da frutto, cinquemila piante di rose e centinaia di alberi della Giudea. Nel momento in cui la villa divenne abitabile, spinta dall’amore smisurato per gli animali (i cani in particolare), decise di consacrare la sua vita alla salvaguardia dello Sloughi, il levriero del deserto, in quell’epoca minacciato realmente di estinzione, incrociato con cani non puri, i barhouchs. Giorni e notti, con tutta una equipe a sua disposizione, attraversò con la sua Land Rover le piste desolate e splendide del sud marocchino, alla ricerca degli ultimi sloughi che portò nella sua casa, iniziando un esclusivo allevamento. Aiutata da esperti, determinò le origini e i pedigree degli sloughi che non erano ancora stati stabiliti; un lavoro enorme che riuscì a salvaguardare la razza, tanto che ancora oggi si parla di lei in Marocco a riguardo degli sloughi. Della sua crociata conservò sino alla sua morte una collezione di immagini, collari e guinzagli d’epoca, oltre ai tanti trofei vinti dai suoi sloughi. Visse gli ultimi anni della sua vita con i suoi amati levrieri arabi, curando il giardino, leggendo e tricottando indumenti per i bambini dei suoi dipendenti e ricevette solo i pochi intimi. “Mi sento marocchina, e quando sono obbligata, una volta all’anno, a ritornare a Londra, non ho che un desiderio, quello di rientrare a casa, in Marocco“. Si spense nei primi anni ’90 lasciando le sue esperienze cinofile e i suoi cani all’amico veterinario marocchino Ali Miguil, grande conoscitore dello sloughi.
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