di Michele Forastiere*
*professore di matematica e fisica
Probabilmente tutti conoscono i divertenti racconti in cui Rudyard Kipling descrive la nascita delle caratteristiche di vari animali, come la gobba del cammello, le macchie del leopardo, le pieghe della pelle del rinoceronte. Sono le famose “Just So Stories” (“Storie Proprio Così”): termine che è giunto a indicare una spiegazione narrativa non verificabile e non falsificabile di qualsiasi fatto biologico o culturale.
Sappiamo bene che le narrazioni selezioniste del neodarwinismo spesso non sono altro che delle “just-so stories”, basate sull’unico indimostrabile assunto che ogni data caratteristica biologica sia un adattamento evolutivo, vale a dire un tratto che si diffonde nella popolazione perché fornisce un vantaggio riproduttivo. Si è abusato molte volte di tale concetto – soprattutto nella letteratura divulgativa di stampo darwinista – poiché esso offre spiegazioni facili su ogni tipo di problema biologico, anche in mancanza di convincenti prove scientifiche a favore.
C’è da dire che, in linea di massima, i biologi evolutivi sono oggi abbastanza cauti nella costruzione di spiegazioni adattive… con un’unica ragguardevole eccezione: quando si tratta di dar conto delle caratteristiche specifiche dell’Uomo. Stephen Jay Gould osservava, nel 1978, che la tentazione di spiegare la mente umana in termini di questa o quella “just-so story” evolutiva era così grande da far spesso sorvolare allegramente sulla mancanza di prove a sostegno. Gould criticava in particolare l’ambizione della sociobiologia di voler rintracciare le radici di ogni comportamento umano in un lontano passato evolutivo – uno scopo non semplice da realizzare, data l’intrinseca difficoltà di separare i fenomeni culturali da quelli biologici. Va detto che le mire della sociobiologia sono davvero elevate (uno dei padri fondatori della disciplina, Robert Trivers, ebbe a dichiarare che “prima o poi le scienze politiche, la legge, l’economia, la psicologia, la psichiatria e l’antropologia saranno tutte branche della sociobiologia”), e non appare molto probabile che possano essere deflesse dalla constatazione che le procedure sono scientificamente poco corrette.
Uno dei paradigmi su cui si fondano le speculazioni darwiniste sulla natura umana è il concetto che la mente sia una collezione di moduli software “programmati” dalla selezione naturale quando i nostri antenati vagavano per le savane pleistoceniche. “Scopri quali siano e come siano stati plasmati dall’evoluzione i moduli che la compongono, e avrai cominciato a capire davvero come funziona la mente”: tale è l’ambizione della psicologia evolutiva. Come i sociobiologi, però, anche gli psicologi evolutivi tendono a fare eccessivo affidamento su inverificabili storie di adattamento evolutivo, senza con ciò portare alcun significativo contributo alla effettiva comprensione dei meccanismi mentali (occorre ricordare che le lucide analisi sul linguaggio di Noam Chomsky e sulla percezione visiva di David Marr furono condotte a prescindere da considerazioni selettive-adattive).
La panoramica delle correnti speculazioni evolutive su comportamento sessuale, capacità mentali, religione e arte, che lo psicologo e biologo David Barash propone nel suo ultimo libro (“Homo Mysterious: Evolutionary Puzzles of Human Nature”), non fa altro che confermare la persistente mancanza di cautela scientifica in questi campi di studio. Secondo Anthony Gottlieb, che ha recensito il libro di Barash su “The New Yorker”, l’autore – lungi dal portare convincenti prove a favore delle tesi selezioniste della sociobiologia e della psicologia evolutiva – riesce soltanto a mostrare in maniera del tutto involontaria quanto facilmente si vendano ancora oggi le “just-so stories” sull’Uomo. Insomma, questo libro ottiene unicamente l’effetto di dimostrare quanto siamo ancora lontani dal poter dire qualcosa di conclusivo sull’evoluzione della mente.
Gottlieb prende per esempio in esame ciò che l’autore dice a proposito della religione. Secondo Barash, il sentimento religioso deve essere stato vantaggioso per gli uomini primitivi, oppure deve essere derivato da qualche altro tratto vantaggioso. Per esempio, potrebbe essere stato un effetto collaterale della curiosità umana sulle cause dei fenomeni naturali, o del nostro desiderio di socializzazione; o forse le credenze e le pratiche religiose aiutavano le persone a stare bene con gli altri, a essere meno egoisti, o a sentirsi meno soli e più appagati. Ebbene, Barash non aderisce esplicitamente a nessuna di queste ipotesi, e tuttavia riesce a trarne la conclusione che è “altamente probabile” che la religione abbia avuto origine da un qualche meccanismo selettivo-adattivo. È convinto, inoltre, che la selezione naturale sia responsabile della “persistenza” del fenomeno religioso nelle società umane… dimostrando così di essere poco aggiornato sul tema, non solo dal punto di vista scientifico ma anche da quello sociologico: oggi, come non mai, esistono decine di milioni di non credenti, e in diverse nazioni la religione è diventata un aspetto del tutto marginale della vita. In realtà, non appare molto probabile che una narrazione selezionista sia in grado di spiegare il fenomeno della secolarizzazione della società.
Il problema dei tentativi di ricostruzione della comparsa della mente a partire da “materiali” pleistocenici – osserva Gottlieb – è che bisognerebbe prima sapere di quale “attrezzatura” mentale gli uomini primitivi già disponevano. Insomma, sebbene si possa sempre raccontare una storia plausibile su come un qualche comportamento abbia aiutato i primitivi cacciatori-raccoglitori a sopravvivere e riprodursi, non è dato sapere se quello stesso comportamento sia invece comparso precedentemente e per ragioni del tutto diverse. Chiaramente, dunque, la storia raccontata non avrebbe niente di scientifico – sarebbe solo un’interessante speculazione dal sapore scientifico. Lo stesso Darwin era consapevole di questo rischio: scrivendo a proposito delle suture ossee incomplete nel teschio dei neonati (le “fontanelle”), il naturalista inglese notava che se ne potrebbe dedurre che si tratti di una caratteristica evolutasi in modo adattivo, vale a dire di un adattamento evolutivo atto a facilitare il passaggio attraverso lo stretto canale del parto. Invece no, anche uccelli e rettili, che nascono da uova, hanno le loro suture del cranio incomplete: è un fenomeno legato allo sviluppo dello scheletro, non alle modalità della nascita. Per quanto concerne i tratti mentali umani, poi, si aggiunge un’ulteriore difficoltà, chiaramente insormontabile: la vita interiore dei nostri antenati ha lasciato veramente pochi fossili!
Ma perché allora, si chiede Gottlieb, gli psicologi evolutivi insistono a ricercare le radici evolutive del comportamento umano, se – come abbiamo visto – si tratta di un tentativo tanto scientificamente inaffidabile? La domanda è destinata a rimanere senza risposta. In teoria, infatti, tale compito potrebbe rivelarsi di qualche utilità se le storie adattive elaborate potessero fornire indicazioni mai notate prima riguardo a determinati schemi comportamentali. Il guaio è che ciò si verifica raramente, se non mai. Per esempio, uno studio condotto circa trent’anni fa da due psicologi canadesi, Martin Daly e Margo Wilson, suggeriva che è più probabile che un genitore abusi di un figliastro che di un figlio naturale, a causa del fatto che i nostri lontani antenati avrebbero avuto una discendenza maggiore prendendosi più cura dei figli biologici. Ancora oggi qualcuno esalta questa ricerca come un trionfo della psicologia evolutiva. Eppure, non di trionfo si tratta, ma di vero e proprio fiasco: uno studio della Columbia University del 1998, che ha preso in esame una grande quantità di fattori di rischio relativi alla violenza sui minori, ha dimostrato che la presenza di un patrigno o di una matrigna non costituisce un campanello d’allarme significativo (eccettuato il caso di violenza sessuale sulle figliastre da parte del patrigno; ma questa circostanza particolare non venne considerata da Daly e Wilson). Con buone pace di tutte le grandi e piccole storie che si possono narrare al riguardo, da “Amleto” a “Cenerentola”, da “David Copperfield” ai racconti sui nostri ignoti antenati delle caverne.
Gli psicologi evolutivi, per la verità, indicano altri studi che ritengono di utilità pratica. Qualcuno pensa che le strategie di accoppiamento potrebbero aiutare a spiegare perché i maschi giovani siano molto più violenti delle donne anziane. Questa considerazione ha in effetti spinto alcuni ricercatori a classificare l’età degli assassini che si verificano in tutto il mondo. Certamente una mappatura del genere potrebbe tornare utile in futuro, chissà. L’idea selezionista alla base è, naturalmente, che i giovani maschi dell’Età della Pietra avrebbero avuto i migliori risultati riproduttivi accettando rischi legati alla competizione per guadagnarsi una compagna e per salire di livello nel gruppo. Fatto sta che non ci vuole una laurea in psicologia evolutiva per capire che la polizia commetterebbe un grave errore se decidesse di fare una retata in una casa di riposo per anziani, andando alla ricerca dell’accoltellatore in una rissa da discoteca.
Due ricercatori della Kansas University hanno poi affermato (in un lavoro pubblicato su una rivista scientifica on-line che i manuali scritti da affermati playboy dimostrano come le intuizioni della psicologia evolutiva possano essere efficaci nella vita reale (o quanto meno, in un nightclub). Non c’è dubbio che la ricerca sul campo in questo settore vada avanti alacremente. E’ interessante osservare che Barash, alla fine del libro, pone l’accento sul fatto che la nostra mente mostra un’ostinata predilezione per le spiegazioni semplici che potrebbero essere false. Vero; ma allora bisognerebbe aggiungere che questa inclinazione è complementare ad un altro aspetto della psicologia umana, vale a dire una passione smodata per la certezza di aver trovato la chiave esplicativa di tutto. Forse, nota ironicamente Gottlieb in conclusione alla sua recensione, esiste una spiegazione evolutiva anche per tali propensioni.