C’è un muro, a Carrassi, che porta ancora i segni dei colpi che hanno crivellato Cesare Diomede due anni fa. Un muro ocra, scrostato qui e là come la superficie del dolore. Su quel muro si è abbattuta la furia della vendetta, la certezza del destino di un capomafia in arrogante ascesa. Di muri come questo, di marciapiedi, di pareti per le esecuzioni capitali, Bari è piena, e poggiando l’orecchio sui mattoni è possibile sentire l’eco degli scoppi, il rimbombo, le urla e le bestemmie che accompagnano le veloci morti di mafia. Ogni muro una vittima. Ogni vittima una vendetta. Il sangue chiama il sangue in una vertigine ancestrale che nessuno è riuscito a interrompere fino ad ora. Cesare Diomede era un rampollo bene addestrato, vestito come un gangster anni Trenta, con dentro la violenza del ragazzaccio e la tracotanza del delfino del re. Suoi la terra che calpestava, il denaro che spendeva, gli abiti firmati che indossava. Sua la firma di più di un omicidio. Suoi il sangue sul muro e le schegge d’ossa schizzate sull’asfalto. Davanti a quel muro non un fiore, non una lacrima. Il passante qualunque non sa e non deve sapere che lì hanno fatto fuori l’ultimogenito di un boss importante e determinato, e che da allora sono morti almeno in tre per pareggiare il conto con la morte.
- Te lo ricordi?, domando a un amico che era amico suo.
Lui torce il naso e la bocca, come a dire che non gli va di parlarne. La puzza di polvere da sparo aleggia ancora per via Buccari.
- Allora?, lo incalzo.
-Se lo meritava. Meglio a lui che a me.
Nella regola della mala barese, ogni proiettile evitato è una vita guadagnata.
- E se passava qualcuno?
- Moriva appresso a Cesare.
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La mala non perdona le sbavature, non concede nulla al caso. Il mio amico si dà da fare con qualche furtarello d’auto, ora che non spaccia più per sopraggiunti limiti d’età, e poi se lo ripigliano con la roba lo sbattono dentro per cinque anni almeno.
- E mo che fai?
- Le macchine e gli appartamenti.
Di piccoli criminali come lui, la città in crisi s’è riempita. Ci sono interi quartieri come questo che brulicano di ex spacciatori a spasso, di ladri di ritorno. Non hanno più futuro nei ranghi della mafia, perché i clan hanno spostato i loro interessi verso l’alto della finanza e delle imprese. Loro, che hanno arricchito i capi spacciando erba a Picone e a Poggiofranco, sono stati fatti fuori per sempre dal bel giro. Devono accontentarsi delle briciole. Questo sottoproletariato sta minando la sicurezza cittadina, ma pare non volersene occupare nessuno.
- Ma un lavoro, no?
- E che faccio come lavoro? Il muratore? A quarant’anni? Tu hai studiato, io no.
Tornano le differenze sociali: io sono un borghese – anche se piccolo – e loro sono i miserabili che una volta giravano in Audi.
- E mo chi è che spaccia nella zona di Cesare?
- Nessuno. Lo spaccio sta fuori, lo fanno pure gli albanesi, ma io no.
La mala che conta assolda spacciatori stranieri, ricattabili nuovi schiavi, servi del padrone italiano. Li paga poco e li controlla di più. Ci sono albanesi e rumeni, tra questi: violenti, feroci, ambiziosi. Fatti della pasta degl’incubi.
- Allora quando stava Cesare era meglio.
Prima di rispondermi mi guarda a lungo. Cerca le parole giuste, infine le trova.
- Sai cos’era meglio? Che se non avevo una lira, pagava lui. Mo vado sempre a jurmo.
E già, a jurmo, a pancia vuota, come tutta la città che da quasi tre anni trema al rimbombo dei proiettili sui muri insanguinati di Carrassi.
- Vi siete fatti fregare, azzardo per provocarlo.
- Ci ha fregato la vita, a noi. Una volta stava giro per tutti, mo non c’è niente più. Ti ricordi?
Sì, ricordo le passeggiate a Picone, i saluti veloci davanti ai cespugli, le bevute e le canne offerte. Ricordo i muretti sbrecciati, le vespe saettanti, le ragazze indecenti e i loro primi figli.
- Sta cambiando il mondo, rifletto.
- Già cambiato. Da mo va!, mi risponde e mi lascia.
Tira dritto per la sua strada, deve aver adocchiato una Mercedes o una Bmw. Io m’incammino e passo davanti al muro di Cesare, infilo un dito nel foro di un proiettile, scrosto via un po’ di calce e vernice. Un passante mi osserva allibito, deve credermi un feticista delle crepe. Sfilo il dito, mi pulisco le mani e penso alla mia città, così cambiata e così uguale. Nel tempo, si sono rotti vecchi meccanismi, ma le pratiche sono le stesse. Capisco Cesare e la sua voglia di arrivare prima degli altri. Aveva senso in un mondo dove ogni regola è scritta perché il piombo e soltanto il piombo possa governare. Aveva scommesso su di sé, e adesso che la ruota ha compiuto un giro intero su se stessa, lui e la sua ambizione sono ridotti a questi piccoli fori su una parete di rimpianto.
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