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La Puglia allo specchio: la storia di Michele la Pezza

Creato il 16 maggio 2013 da Sulromanzo

La Puglia allo specchio: la storia di Michele la PezzaAttraverso i portici di Via Capruzzi da tre decenni. Sulla mia testa gli alti palazzi che chiudono Carrassi e la ex caserma Rossani alla vista della stazione. Un sottopasso – uno dei tre – e mi lascio alle spalle il mio quartiere, l’altra metà della città tagliata via di netto da una pianificazione urbana non migliore di quella attuale. Pioviggina. Riparo sotto la pensilina di ferro della stazione centrale. Davanti a me il teatro del triste fuggi fuggi di Piazza Roma: la fontana rotonda che col maestrale bagna l’asfalto nel quale si specchia il grattacielo che ha sostituito il palazzo storico della Gazzetta del Mezzogiorno, i somali che squattano come fantasmi nel vecchio dormitorio dei ferrovieri, gli alberi tristi sopra il gabbiotto dell’Amtab dove una volta, davanti a un bus, venivo a sentire i concerti rock dei Suoni Mudù in primavera. Allora ero un ragazzino un po’ tonto, il più delle volte perso nel sogno meridionale di abitare un’altra città. È bighellonando da queste parti che ho conosciuto Michele la Pezza. Michele ha fatto il parcheggiatore abusivo per la famiglia Campanale, quella che gestiva le piazze della città e ne traeva un profitto notevole.

– Quelli erano bei tempi.

Per lui di sicuro. Era un giovane pollone del sottoproletariato del clan Strisciuglio di San Girolamo, un quartiere abbandonato da Dio e dagli uomini. Una striscia di case popolari sul mare. Una costellazione di abusivismo edilizio, pescherie poco pulite e trame criminali che partivano – e partono – dal Libertà e da Bari Vecchia. Michele la Pezza ha imparato presto il vocabolario dell’estorsione. «Un caffè, dottore?», «La macchina sta a posto, dottore», «Prego, signora, qua c’è posto». Sigaretta sempre in bocca, il naso schiacciato e all’insù, i capelli impomatati, Michele faceva la giornata per strada e a sera tratteneva il trenta per cento per pagarsi la vita e l’eroina. Il resto ai Campanale. Non c’era parcheggio dove la famiglia non mettesse le mani, accumulando ricchezze che poi reinvestiva nell’usura e nella droga, fino a quando un pezzo del clan ha pensato di darsi una ripulita e di legalizzarsi restando nel business grazie all’allora amministrazione comunale, innescando una violenta faida finita con bombe e pallottole. Poi l’anno scorso Felice Campanale, il grande vecchio dei parcheggi abusivi, è stato colpito proprio a San Girolamo. Da allora qualcosa è cambiato nella vita di Michele la Pezza.

– Non si campa più.

Si strofina il naso con il dorso della mano destra, sudicio come il suo maglione, il giubbotto di jeans Wrangler vecchio di vent’anni e i pantaloni di flanella beige.

– Non so più che fare. Non mi dà lavoro nessuno.
– Ma tu che sai fare?

Sorride, aprendo la bocca sdentata. Il viso gli si addolcisce, torna quasi bambino. Alza le spalle. Gli avrò pagato mille caffè, nella mia vita. E come me chissà quanti baresi, ma lui ha bruciato tutto nell’eroina, mentre i Campanale trafficano ancora in città: sottobosco che cresce indisturbato all’ombra del Parisi, degli Strisciuglio, degli Stramaglia…
La mala a Bari è fatta così. Lascia e prende, si apre e si chiude, come un mantice soffia ogni tanto sul fuoco della vendetta. Michele la Pezza ha avuto un posto fisso da parcheggiatore abusivo. Poteva andargli peggio, come ai marocchini che vendevano sigarette per i Diomede a Carrassi e che ora sono tutti al Nord o chissà dove, estirpati come la gramigna da un sistema criminale che prima li ha illusi, poi li ha espulsi.

– Io so pulire le macchine.
Nel gergo dei reietti significa sfondare un vetro di un’automobile e rovistarla fino a trovare qualcosa da vendere in un compro oro o a un ricettatore del Libertà o di Carrassi. Poche decine di euro per una dose comprata magari proprio dai suoi ex datori di lavoro.

– Ma le macchine mo c’hanno tutte l’antifurto. Poi se mi vedono…

Teme che le famiglie più grosse possano fermarlo, picchiarlo. Non sarebbe il primo. Ogni tanto qualcuno finisce all’ospedale perché ha toccato la macchina di un intoccabile, o perché i quartieri devono essere sicuri e puliti nell’eventualità di una sparatoria, o per proteggere il traffico di cocaina.

– Ma la roba dove la compri?

Michele mi fa pena. Guarda nel vuoto, indifferente come tutti i tossici.

– Prima andavo a San Pasquale, poi hanno ucciso a quello…

Poche settimane fa hanno ucciso il giovane capo dei Caracciolese alle 9.30 del mattino, nell’affollato mercato a cielo aperto di via Nizza. Ci accompagnavo mia nonna, in quel mercato, perché a duecento metri da lì mio nonno aveva la sua salumeria: la prima del quartiere. Dalla salumeria al mercato passavo davanti al casermone popolare di via dei Mille, dove Michele e altri fantasmi come lui andavano a comprare l’eroina.

– Secondo te chi è stato?
– Quelli di Carrassi, che pure loro mo stanno alle pezze…

Da un anno la guerra di droga tra i Caracciolese e i Diomede insanguina quattro strade di due quartieri distanti poche decine di metri: via Buccari, via Re David, via dei Mille, via Nizza. Quattro strade per quattro morti. Il più giovane aveva soltanto ventun anni. Il più potente trentadue.

– E mo?, gli domando.

Sorride appena, poi fa una smorfia. Intorno a noi non c’è nessuno. Un alone di diffidenza lo circonda. Quando andavo alle medie quelli come lui mi fermavano, mi perquisivano e mi sfilavano le cinquecento lire che per me valevano una partita a biliardo. Poi filavano via verso Poggiofranco, dove gli scagnozzi della città per bene vendevano l’eroina di Savinuccio. E sì, perché anche i ragazzi per bene non si accontentano mai, a Bari. Lui stava coi Campanale, non doveva mettere piede a Japigia. Allora la roba la comprava alle panchine di Viale Kennedy o in una sala giochi vicino al bar Moderno, sotto i palazzi dei professionisti della città.

– Mo sto inguaiato. Sto pieno di debiti e… non è che c’hai un euro per un caffè?

Gli passo un euro e lo saluto, augurandogli di smetterla di farsi. Oltrepasso la stazione e prendo per via Re David, entro nel quartiere di mio padre e di mio nonno. E salgo fino alle vie dove, quando ero piccolo, giocavo a far la guerra mentre altri, adesso, se la fanno davvero. Incrocio alcuni pakistani: i volti indifferenti, la vita presa da altri affanni. Il mio quartiere è anche questo: uno strano incrocio di vita e di morte.
 

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