Sulla pelle una marchiatura a fuoco, come di una vacca. Non le iniziali del padrone, ma la ‘U’ inconfondibile di un accendino e la ‘X’ di una lama o di un rasoio. Ha meno di diciotto anni, Kudì, ed è nigeriana. Sosta sotto un ulivo, davanti a una complanare come tante, nel Salento. Il caldo non la strema, non più dei suoi clienti. Sono le dieci del mattino, e da Cerignola a Leuca le strade pugliesi si sono già colorate di nero. Il nero delle Kudì, come il nero dei raccoglitori di pomodori e di verdure. Ma quest’anno la Puglia sarà più nera, perché le giovani nigeriane nessuno le aveva mai spinte fin qui.
– Da dove vieni?
– Campania, ma ogni tanto lavoro a Bari.
Kudì è il prototipo della prostituta nigeriana: discinta – non più di una qualunque frequentatrice di lidi o discoteche – ammiccante – non più di tante signore per bene – a pagamento – come gran parte dell’umanità. Ma Kudì è una schiava, e già il parlare con me la espone al rischio di una severa sanzione da parte dei suoi protettori salentini.
– Quest’anno sei arrivata?
– Quest’anno ci portano qua a marzo, poi da settembre sto a Bari.
L’estensione del dominio del crimine barese pare arrivare fin sotto le mura dei comuni della Sacra Corona Unita, fino alle porte di Nardò, dove la mafia salentina se la fa con la Camorra campana e con quella barese, fino ai lidi ben frequentati, secondo una mappatura ben precisa che rispetta l’ordine sociale delle cose e mi fa pensare a un preciso accordo tra clan.
Kudì scantona, sbuffa, ma ha voglia di parlare. Di parole non deve poi dirne tante, e non sempre sensate, col mestiere che fa. Il suo italiano biascicato, la sua voce stridente con il silenzio accarezzato dal primo frinire delle cicale, i suoi capelli duri e fermi contro il maestrale di questi giorni: è una chiazza di schiavitù al servizio del turista che arriva e dei tanti maschi salentini che percorrono queste vie.
– Dove dormi, dove riposi?
– In campagna… altre in paese, ma fuori.
E sì che di casupole e piccole masserie all’apparenza abbandonate ce n’è in sovrabbondanza quaggiù.
Ma lei sta in paese, e mi indica una sua vicina.
– Lavora la sera in casa, aggiunge.
Le domando se posso parlare con la sua amica, e Kudì si offre di farle da interprete perché non parla italiano. La giovane, ritrosa e schiva, mi racconta di clienti che la raggiungono nel centro di Nardò, prima di uscire o quando si ritirano. Sono giovani e meno giovani, e ci sono, ovviamente, gli uomini del posto. Senza soluzione di continuità, dall’inverno all’estate la Pugliasi conferma regione del sesso a pagamento… una terra postribolare dove le mafie dei territori guadagnano a fiumi sulla pelle di donne come loro. Mentre parliamo, automobili salutano le donne. Maschi invidiosi sospettano che io stia trattando per una cosa a tre. Le donne italiane accelerano scansando queste sorelle meno fortunate.
– E la notte?, le domando.
– La notte… D’estate noi lavoriamo dove fanno le sagre.
D’inverno, invece, davanti ai fuochi di Bari, a Lecce, a Brindisi…
In estate, poco lontano da qui i turisti si consumano felici nella Taranta, mentre loro, le schiave, si fanno consumare dalla tarantella frenetica del sesso: sport internazionale nel quale l’Italia primeggia.
Tristi i volti delle due donne, tristi e feriti come solchi profondi nella terra. Più tristi di un ammasso di rifiuti vicino al mare: rancorosi come nessuno dovrebbe essere almeno d’estate, quando la gioia, il sorriso e la voglia di tornare a vivere dovrebbero tornare a illuminare con il sole la vita di chiunque.
– Noi non possiamo andare in discoteca, là ci stanno le rumene, le albanesi.
Sì, non c’è dubbio che nelle discoteche una negra come Kudì non può entrare se non come cubista, o fingendosi cubana. Il mercato delle schiave delle notti salentine è stratificato: a ciascun cliente il suo target di donna. Crepare di sesso sulle statali è il destino di queste donne africane, che come olive brune appese al ramo si stanno, ad aspettare l’amaro sconforto di un maschio bianco in vacanza in Pugliao di un salentino qualunque.
– Vengono in molti, con voi?
– Sì, rispondono praticamente all’unisono, un unico e solo risuonare di dolore.
Per terra, un’installazione di sigarette e fazzolettini, consumati e sudici come i loro corpi ancora giovani, qui e là preservativi annodati, appallottolati. Roba da Beaubourg, da Palazzo delle Esposizioni, da Museo d’Arte Contemporanea. Poco più dietro, già nel campo, due borse dalle quali traboccano gli indumenti civili delle ragazze.
– A tutte le ore, vengono?, insisto con la morbosità del mio lavoro, forse infastidendole, forse no.
Annuiscono, poi Kudì traduce quello che dice la sua compagna.
– La sera sono di più, ma anche la mattina… I contadini e quelli che vanno a lavorare a Lecce.
I city user e i businessman, quelli che escono di casa e attraversano le provinciali, le statali, le strade del sesso, appunto. Ma quest’estate, alla sera, poi, quando il sole sarà calato e si animeranno le sagre e sfrigoleranno le lumache nelle padelle, quando si alzeranno le musiche antiche e le parole griche dei cantori di un passato oscuro e mitico, gravido di presagi di salvezza e di redenzione, queste donne staranno qui, sotto lo schiaffo dei maschi.
Le saluto, torno a visitare le campagne dove i campani portano già i primi braccianti, dove i pannelli solari sequestrati alla mafia leccese creano un’immagine riflessa della speculazione sulla terra. Lascio le due ragazze al loro destino. Salutandomi discretamente sembrano implorarmi di non provare pena. Nessuna pena, amiche mie, per voi. E nessun risentimento. Ma solo una profonda rabbia che dallo stomaco mi assale come la puntura velenosa di una tarantola di tarda primavera.
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