La coscienza non se lave cu sapone
Le mane restan ‘mbrattate da na calibro nove
Perché Dio ci ha abbandonato
Quanto è fredda ‘sta città
(Il Nano & Tommy Parisi, La di’ de la rapine – Il giorno della rapina)
Alto e spesso baffuto come un carabiniere a cavallo. E di cavalli se ne intende, li adora, ne possiede, li fa correre e ci scommette fino a rimetterci la libertà quando è pescato in un ippodromo. Familista convinto, tanto che anni fa a Triggiano probabilmente riuscì a scappare all’arresto durante il battesimo di suo nipote Tommaso. Padre di Tommy, un cantante neomelodico piuttosto in voga sul web. È il capo carismatico e indiscusso delle mafie pugliesi. Barese, classe 1960, si chiama Savino Parisi. Provo a tracciare il confine immaginario del suo dominio percorrendo in automobile la costa sud barese. Parto da Monopoli, ulivi a sinistra e case a destra. Monopoli d’estate: lidi zeppi di bagnanti, la notte di danzatori e spacciatori. ‘Quelle discoteche o sono sue o gli devono qualcosa’, mi dicono quelli che le frequentano. Eppure il Parisi – Savinuccio per i più – è in carcere da un po’, quantunque a singhiozzo, e c’è chi lo dà ormai per perdente. ‘Ma quale perdente?! Quello sta dietro a tutto’. Secondo altri il boss sarebbe vittima di una fatwa, e per questo dopo una scarcerazione di tre giorni a dicembre adesso è tornato dove non possono toccarlo con facilità.
Lascio Monopoli e mi rivolgo a Polignano. Uno stormo di gabbiani gira minaccioso sulla mia autovettura. Siamo in inverno, fa freddo anche in Puglia e la tramontana frusta con le onde la scogliera imperiosa dell’altissimo borgo antico. A vederlo adesso, Polignano è un paese deserto, silenzioso e ostile. Qui nacque Domenico Modugno – come ricorda una statua in bronzo dove il cantante a braccia aperte come un Cristo canta Volare – qui d’estate non riesci a mettere piede per quanti turisti ci sono, ma ora non c’è nessuno e i rari visitatori vi si recano soltanto per il famoso caffè speciale. Per i bene informati un pezzo delle attività turistiche della zona cresce nelle mani delle famiglie criminali del posto e di Monopoli, ex contrabbandieri di sigarette e venditori di armi, ma una quota dei proventi finisce nelle tasche del Parisi perché dà protezione, denaro e garanzie altolocate: ha legami con i palermitani di Buscemi, ma pure con i Casalesi e quel che resta della Sacra Corona Unita. Un invidiabile capitale sociale, non c’è che dire. Dicerie? Forse, ma a Valenzano, poco fuori Bari, Savinuccio e il clan Stramaglia – complici alcuni politici e palazzinari – pare volessero finanziare con qualche milione di euro la costruzione di una casa per studenti universitari. E sempre a Valenzano erano in residenza obbligatoria dagli anni Settanta degli intoccabili siciliani. Uno di essi, Michele Buscemi – nipote del più noto Salvatore e imparentato con il capo della famiglia Stramaglia – fu eliminato nel 2008 quando a Bari e a Palermo mutarono gli equilibri. L’anno dopo fu ucciso Stramaglia, senza che Savinuccio fiatasse.
Lascio Polignano e percorro la statale 16bis fino a Mola, terra di ininterrotti conflitti di mala tra i piccoli pesci albanesi e i figli di una decadente economia marittima: i nuovi spacciatori di cocaina. A Mola si può morire di botte in pieno borgo antico, davanti a una statua dove le anziane si riuniscono in preghiera accendendo ceri e recitando rosari per l’anima dei morti in mare. Da Mola a Japigia il passo è breve. Japigia: il suo tempio. Vi entro scortato dai miei ricordi e dai gabbiani sulla mia testa. Ripercorro le strade che per anni – quando andavo al liceo Salvemini – battevo col pullman o a piedi. La corsa dei suoi cavalli su via Caldarola, la più lunga e larga arteria cittadina. Le file di automobili che fin da Bologna venivano a rifornirsi di eroina e cocaina a basso costo. A Japigia non poteva accadere nulla perché accadeva già tutto: gli affari del monarca e dei suoi complici dovevano procedere indisturbati. Si andava a comprare il fumo da un tale Vitellozzo nelle case basse di una trentina di famiglie sfrattate, stipate in delle specie di container vicino al più grande ossario nazionale per i caduti d’oltremare, accanto al quale noi giocavamo al pallone tra ratti e carcasse d’elettrodomestici. Solo quest’anno il Comune ha abbattuto quelle case bunker. Lì c’erano gli affiliati, carcerati dietro inferriate e camerette, e vendevano dal Dash all’hashish. Japigia, il luogo del silenzio intimato dalle trombe del sacrario militare e dai traffici di Savino. Tra palazzoni e campi aperti, condomini privati o popolari, i tossici non potevano farsi lì, allora si allungavano verso Carrassi e Picone, fin dentro la città.
Da Japigia, per strette complanari zeppe di prostitute nigeriane coi loro ombrellini variopinti e i focherelli tra le gambe, arrivo a San Giorgio, dove di recente è stato incendiato un gazebo di surfisti. San Giorgio, il lungomare più triste d’Italia. Le casupole abusive che punteggiano la costa sono da sempre casini per le puttane. Una volta italiane, ora slave o centrafricane. Giovanotti con gli scooter sorvegliano la zona ricevendo in cambio fica e cocaina, di fronte a una scogliera che i baresi vorrebbero riconsegnata alla civiltà. A metà del percorso che da San Giorgio porta a Pane e Pomodoro – la sola spiaggia praticabile di Bari – davanti a un distributore di benzina scorgo il gazebo bruciato. Scavalco il cancello e l’odore acre del legno e della plastica squagliata mi pungono il naso. Cammino tra quelle rovine accompagnato da un amico di queste parti. ‘Può essere stato chiunque, ma a me non sembra opera di ragazzini perché qui ci sono anche delle videocamere sempre accese’. Professionisti, allora. Gente che non vuole lo sport tra le alcove del sesso mercenario. Zona sua? Tutti lo dicono, non io. Ora mi allontano, passo per la Madonnella, dove ho visto il mio primo morto ammazzato per terra, coperto da un lenzuolo e da una donna urlante che mi diceva che non c’era niente da guardare. Lo stormo di gabbiani si libra nell’aria prima di Bari Vecchia. Svolto, rientro a casa, a Carrassi, e passo davanti al muro dove l’anno scorso hanno giustiziato Cesare Diomede, un rampollo della mala che scansavo alla grande perché si dava arie da bullo come il preferito di Don Vito Corleone. Oltre trenta colpi, una sera, pochi dei quali andati a segno. Entro in casa e mi chiudo dietro la porta. Mi stendo sul divano. Dentro mi frulla lo stormo di gabbiani: volteggiano come avvoltoi sulla noia mortale di questa città malavitosa.
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