L’ultimo decennio del diciottesimo secolo segnò profondamente lo stile di Francisco Goya, celebrato pittore della corte di Madrid. Allo scoppio della Rivoluzione Francese, la monarchia spagnola aveva ostentato indifferenza verso i rivolgimenti transpirenaici, sicura dell’impermeabilità del regno alle idee rivoluzionarie. Ma già nel 1793, dopo l’esecuzione di Luigi XVI, Borbone come i sovrani spagnoli, il re Carlo III dovette fare i conti con l’esercito francese, finendo per dover accettare un rapporto di subalternità, divenuta una vera e propria occupazione dopo l’invasione napoleonica del 1808, con la detronizzazione del legittimo sovrano a favore del fratello di Napoleone, Giuseppe Bonaparte. Goya, spirito liberale stretto tra l’assolutismo borbonico e il furore rivoluzionario dei francesi, avvertì visceralmente la drammaticità degli avvenimenti, tanto più che il suo animo contemporaneamente veniva scosso da una grave malattia che lo aveva colpito durante un viaggio a Cadice, condannandolo alla sordità per il resto della sua vita. L’introspezione forzata, dovuta all’isolamento conseguente alla sua disabilità, lo portò ad abbandonare gradualmente la grazia e la leggerezza ironica che lo avevano consacrato negli ambienti di corte e accademici, per una pittura che voleva rappresentare i demoni della superstizione, della tirannia, della violenza senza mediazioni, in tutta la loro potenza simbolica ed espressiva, attraverso un colorismo lontano anni luce dalla luminosità e freschezza che lo avevano contraddistinto, fatto di pennellate cupe e rabbiose, tendenti alla monocromia.
Le prime avvisaglie di questo mutamento si ebbero con i celeberrimi Capricci del 1797, album di acqueforti che a lungo è stato il principale sostegno alla fama di Goya, nel quale emerge il senso di amarezza e di smarrimento di fronte al proprio stato di salute e ai rivolgimenti storici che incombevano, espresso attraverso un disegno satirico e un uso incisivo del chiaroscuro. In pittura, le manifestazioni più compiute arrivarono dopo l’occupazione francese e il fallimento e la repressione dell’insurrezione del maggio del 1808, con opere come Il colosso del 1810 e il dittico composto nel 1814, alla vigilia del ritorno al trono di Ferdinando VII, rappresentante l’insurrezione del 2 maggio e la fucilazione del 3 maggio 1808. Tema, questo dell’occupazione napoleonica e della resistenza spagnola, che ispirò a Goya la raccolta di acqueforti I disastri della guerra, composta tra il 1810 e il 1820. Ma il ritorno del legittimo sovrano non rasserenò la situazione: l’assolutismo e l’inquisizione vennero ripristinati e i liberali e tutti coloro che in qualche modo avevano collaborato con i francesi vennero perseguitati e imprigionati. Goya stesso venne portato davanti al tribunale dell’Inquisizione, uscendone assolto, a causa dei suoi lavori considerati contrari alla religione. Vista l’aria, il pittore, ormai settantatreenne, decise di emarginarsi dalla mondanità madrilena e scelse come buon ritiro una casa alla periferia della capitale, sulle rive del Manzanares, denominata popolarmente la Quinta del sordo. Qui Goya visse in solitudine (o forse in compagnia di una giovane vedova, Leocadia, anch’ella raffigurata nella Quinta) dal 1820 al 1823 e dipinse le pareti con la tecnica ad olio, con scene prese dalla mitologia come dalla vita quotidiana, tutte accomunate dalla volontà di rappresentare l’abisso umano, facendolo emergere in tutta la sua cifra deformata e deformante. L’infanticidio cannibalico di Saturno, Oloferne decollato da Giuditta, il sabba delle streghe, il grottesco corteo dei pellegrini, l’incauto cagnolino inghiottito dalle sabbie mobili, i vecchi e i frati dal volto scarnificato sono la metafora straziata di un’umanità condannata dal sonno della ragione.
La Quinta, denominata per i suoi toni e contenuti cupi “las Pinturas negras”, semisconosciuta almeno fino al restauro e al trasferimento al Museo del Prado nel 1881, apre uno squarcio nella storia dell’arte, proiettando Goya verso orizzonti simbolisti ed espressionisti, ponendolo tra i principali anticipatori delle avanguardie del novecento. Il perdurare del clima ostile nei confronti dei liberali costrinse Goya, ormai sulla soglia degli ottantanni, a chiedere al re un passaporto per la Francia, trovando sistemazione a Bordeaux, dopo un soggiorno parigino. Ritrovata la serenità, negli ultimi anni francesi il pittore, nonostante l’età avanzata, si dedicò alla litografia (I tori di Bordeaux) e riprese la sua maniera cortese, abbandonata dopo il manifestarsi della sordità, raggiungendo con la Lattaia di Bordeaux del 1827 esiti che anticipano l’impressionismo.