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La rabbia dei numeri tanti

Creato il 04 aprile 2012 da Albertocapece

La rabbia dei numeri tantiLuisella Nuovo Floris per il Simplicissimus

Scrivo in prima persona conscia che questa non sia la mia individuale e isolata esperienza, ma racchiuda microcosmi “altri”. La solitudine di tanti. Troppi.

A forza di vedere umanità supplicante avvolta in cartoni nelle nostre strade, ci si è atrofizzata la coscienza. Disperazione al cubo genera indifferenza, ormai. Però, forse, vale ancora la pena di raccontare e raccontarci. Non tutto, solo un breve frammento, perché l’oblio è una morte dolorosa e lenta.

Capita ormai ai più di cercare lavoro, non trovarlo, perderlo, trovarlo e dover sottostare a richieste da diritti negati. Senza orari, senza possibilità di scelta, appiattiti in una vita di “incremento delle vendite” che accrescerà la felicità di pochi a discapito dei molti.

Dunque: trovi lavoro e richiedono, sottilmente, ma anche no, la tua presenza per dodici ore il giorno. Anche qualcosa in più. E tu accetti. Il contratto sarà sicuramente atipico, ma a breve potrà anche essere tipico e rescindibile, altresì, per ribellione alla schiavitù (tutto torna di moda). Si chiama smembrare l’articolo 18 e soggiogare una nazione intera. Allora tu, sottopagato e sfruttato, assumi sottopagando e sfruttando tuoi simili. Quelli che ti aiuteranno nella gestione di una famiglia che hai deciso di creare e che ora non ti vedrà se non nei ritagli di tempo. Poi ti occuperai di “impiegare” nei modi più fantasiosi e meno retribuiti, qualcuno che si occupi dei tuoi genitori. Sì perché ci hanno anche tolto il diritto al dolore e all’amore, per cui chi ti ha messo al mondo ti serve fino a quando può esserti di sostegno, poi diventa un fardello fastidioso. Il lutto per l’assenza c’è stato negato, la sofferenza è stata inghiottita da una vita di corsa. Un lutto di corsa, insomma.

Oppure: il lavoro non lo trovi e se, per puro caso, hai ancora un compagno, lui sarà ricattato perché unica fonte di reddito. Sparirà più delle dodici ore a te proposte. Viaggerà, non ci sarà o sarà eternamente reperibile. Le urgenze così tante da diventare normalità. Un mondo in eterna priorità. Fare la spesa la domenica è priorità. Togliere la possibilità ad altri di avere una vita oltre il lavoro per comprare oggetti acquistabili anche il giorno prima (o quello dopo) è priorità. Passare – se ancora lo hai – il giorno di festa in famiglia pascolando in un centro commerciale è priorità. Urgenza di fragole fuori stagione, necessità impellente di carne d’animale esotico, bisogno d’oggetti inutili e spesso ridicoli. Così ci hanno fregato e, anche ora che non possiamo più permetterci tutto questo, l’improrogabilità dello shopping per finta è così forte da scatenare plausi per la liberalizzazione degli orari.

Tutto così assurdo.

Non sono un’economista, neanche una grande economa a dirla tutta. Certo che così a occhio mi pare sarebbe tutto più semplice con pochi accorgimenti, per esempio un lavoro part-time della durata di sei ore per me e un part time di quattro/sei ore per un altro. Lo stesso “altro” che dovrei assumere-senza-assunzione per svolgere tutte quelle attività che, perennemente assente dalla mia vita, delegherei. Facciamo quattro ore a testa?

Eppure non sembra fattibile, così come nel 2000 avanzato (e che forse non ci avanzerà) per lavorare in un call center devi viaggiare su è giù per la città in orari improbabili, consumare ossigeno inquinando e occupare spazio-in-movimento, quando sarebbe semplice e poco dispendioso per tutti farlo da casa. Un unico computer, nessuna spesa per l’affitto dei locali, gestione e controllo (giacché siamo un’epoca malpensante) via internet e spostamenti ridotti, quindi meno traffico.

E via così.

Invece ci affanniamo per tenere brandelli di vita con i denti, mentre ci tolgono altro e poi ancora. Siamo così sfiniti da pensare in piccolo, resi ottusi dall’assenza di speranza e dalla sfiducia. Tutto così difficile, improponibile, inderogabile. Qualcuno ci chiede la vita e noi, rassegnati, ce la togliamo per offrirgliela. Giriamo in cerchio, le sedie si riducono, la musica finisce e per uno di noi è game-over. Definitivo game-over. Forse dovremmo smettere di “farci giocare”, dignitosamente.


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