Luisella Nuovo Floris per il Simplicissimus
Scrivo in prima persona conscia che questa non sia la mia individuale e isolata esperienza, ma racchiuda microcosmi “altri”. La solitudine di tanti. Troppi.
A forza di vedere umanità supplicante avvolta in cartoni nelle nostre strade, ci si è atrofizzata la coscienza. Disperazione al cubo genera indifferenza, ormai. Però, forse, vale ancora la pena di raccontare e raccontarci. Non tutto, solo un breve frammento, perché l’oblio è una morte dolorosa e lenta.
Capita ormai ai più di cercare lavoro, non trovarlo, perderlo, trovarlo e dover sottostare a richieste da diritti negati. Senza orari, senza possibilità di scelta, appiattiti in una vita di “incremento delle vendite” che accrescerà la felicità di pochi a discapito dei molti.
Dunque: trovi lavoro e richiedono, sottilmente, ma anche no, la tua presenza per dodici ore il giorno. Anche qualcosa in più. E tu accetti. Il contratto sarà sicuramente atipico, ma a breve potrà anche essere tipico e rescindibile, altresì, per ribellione alla schiavitù (tutto torna di moda). Si chiama smembrare l’articolo 18 e soggiogare una nazione intera. Allora tu, sottopagato e sfruttato, assumi sottopagando e sfruttando tuoi simili. Quelli che ti aiuteranno nella gestione di una famiglia che hai deciso di creare e che ora non ti vedrà se non nei ritagli di tempo. Poi ti occuperai di “impiegare” nei modi più fantasiosi e meno retribuiti, qualcuno che si occupi dei tuoi genitori. Sì perché ci hanno anche tolto il diritto al dolore e all’amore, per cui chi ti ha messo al mondo ti serve fino a quando può esserti di sostegno, poi diventa un fardello fastidioso. Il lutto per l’assenza c’è stato negato, la sofferenza è stata inghiottita da una vita di corsa. Un lutto di corsa, insomma.
Oppure: il lavoro non lo trovi e se, per puro caso, hai ancora un compagno, lui sarà ricattato perché unica fonte di reddito. Sparirà più delle dodici ore a te proposte. Viaggerà, non ci sarà o sarà eternamente reperibile. Le urgenze così tante da diventare normalità. Un mondo in eterna priorità. Fare la spesa la domenica è priorità. Togliere la possibilità ad altri di avere una vita oltre il lavoro per comprare oggetti acquistabili anche il giorno prima (o quello dopo) è priorità. Passare – se ancora lo hai – il giorno di festa in famiglia pascolando in un centro commerciale è priorità. Urgenza di fragole fuori stagione, necessità impellente di carne d’animale esotico, bisogno d’oggetti inutili e spesso ridicoli. Così ci hanno fregato e, anche ora che non possiamo più permetterci tutto questo, l’improrogabilità dello shopping per finta è così forte da scatenare plausi per la liberalizzazione degli orari.
Tutto così assurdo.
Non sono un’economista, neanche una grande economa a dirla tutta. Certo che così a occhio mi pare sarebbe tutto più semplice con pochi accorgimenti, per esempio un lavoro part-time della durata di sei ore per me e un part time di quattro/sei ore per un altro. Lo stesso “altro” che dovrei assumere-senza-assunzione per svolgere tutte quelle attività che, perennemente assente dalla mia vita, delegherei. Facciamo quattro ore a testa?
Eppure non sembra fattibile, così come nel 2000 avanzato (e che forse non ci avanzerà) per lavorare in un call center devi viaggiare su è giù per la città in orari improbabili, consumare ossigeno inquinando e occupare spazio-in-movimento, quando sarebbe semplice e poco dispendioso per tutti farlo da casa. Un unico computer, nessuna spesa per l’affitto dei locali, gestione e controllo (giacché siamo un’epoca malpensante) via internet e spostamenti ridotti, quindi meno traffico.
E via così.
Invece ci affanniamo per tenere brandelli di vita con i denti, mentre ci tolgono altro e poi ancora. Siamo così sfiniti da pensare in piccolo, resi ottusi dall’assenza di speranza e dalla sfiducia. Tutto così difficile, improponibile, inderogabile. Qualcuno ci chiede la vita e noi, rassegnati, ce la togliamo per offrirgliela. Giriamo in cerchio, le sedie si riducono, la musica finisce e per uno di noi è game-over. Definitivo game-over. Forse dovremmo smettere di “farci giocare”, dignitosamente.