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Da dove cominciare se non dal titolo che indica una porzione di terra nell’Argentina più recondita in cui due famiglie limitrofe sono teatro di glossario incivile e umiliante per chi sta dall’altra parte dello schermo: tradimenti, patriarcato, diseducazione, noncuranza praticamente verso tutto, anche verso se stessi. Questi gli elementi che costituiscono i personaggi del film di Albertina Carri, la quale tenta la carta della malizia fin dalla prima scritta riguardante gli animali.
Aspetto se non centrale, ma comunque di rilievo, è infatti il rapporto tirannico con le bestie le quali vengono trattate maluccio e nel caso di un maiale uccise senza rimorso alcuno. Ora, non metto in discussione le pratiche all’interno di una fattoria che mi fanno arrivare la bistecca sul tavolo, però riprendere nitidamente lo sgozzamento di un porco con tanto di terrificante lamento suona come autogol per due motivi: il primo riguarda una certa sensibilità che di fronte ad uno spettacolo gratuito spero tutte le persone di buon senso abbiano, il secondo invece è più attinente all’argomento cinema e immediatamente penso all’esibizionismo dei mondo-movie o dei cannibaleschi anni ’70 dove le violenze sugli animali riprese nel dettaglio avevano solo lo scopo di attirare l’attenzione su di sé. L’operazione della Carri puzza perciò di tiro scorretto, e lo scuoiamento del maiale con tanto di logo WWF su una felpa di chi sta compiendo tale atto ha il sapore del miele per le api-spettatrici. Un miele che però non è per niente dolce.
E giusto per non farsi mancare niente, si tenta di intraprendere il vicolo ciechissimo della storiella eccitante con un fallo eretto e qualche scena di sesso, di cui una così ridicola da risultare triste dove il padre colto dal figlio in pieno coito continua imperterrito sotto gli occhi del bimbo. Tristezza, appunto.
Come sempre sono i modi a pesare sul giudizio.
I due escamotage sopra indicati se incastrati in un contesto adeguato e se trasmessi con un metodo adeguato potrebbero non infastidire come invece fanno questi, e per esempio un Benny’s Video (1992) che riporta una simile esecuzione suina diventa felice esemplare di cinema crudo ma non scorretto.
A tutto ciò si aggiunge un comparto psicologico di estrema banalità in cui la piccola figlia ha il vizio di spogliarsi perché vede la madre fare altrettanto e dove il dramma social-famigliare è una telefonata intercontinentale via cellulare, non va dimenticata poi l’ottusità del padre-padrone che è la prevedibilità incarnata in un uomo tutto casa, bestiame, gelosia e illusorio potere. Almeno viene risparmiata la sua dipartita con una discreta ellissi temporale che ci catapulta al funerale, ma tale piccola bontà viene rovinata dall’inutile finale intenzionalmente tragico, realisticamente urticante.
Girato (deduco) in digitale con alcuni inserti disegnati che forse rimangono il male minore, La rabia (2008) è un’opera che non solo non si sforza di essere appetibile, ma persiste nell’errore infognandosi su trovate di basso rango che potrebbero abbindolare soltanto qualche neofita in cerca di facile provocazione.
Noia estesa dentro di me, ed anche un poco di irritazione.
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