Magazine Per Lei

La ragazza che voleva morire

Creato il 16 gennaio 2011 da Rossellamartielli

La ragazza che voleva morire

La diversità, Edizioni Croce 2010


(Questo racconto è tra i vincitori della prima edizione del concorso letterario "loSCRITTOio", indetto dalla Fondazione Roma Sapienza e da Edizioni CroceÉ stato pubblicato in un volume intitolato "Diversità", che raccoglie le opere vincitrici del concorso.La diversità di cui si parla nel racconto è la diversità della malattia mentale, delle depressione, che isola l'individuo e arriva fino a ucciderlo. A dispetto di un'apparente uguaglianza - il depresso non è uno storpio, o un nero, o un immigrato - il depresso è un uomo normale che non ha nulla in comune con il vissuto e il percorso degli uomini che non soffrono di questa malattia, "normali" secondo l'accezione che la società occidentale da al termine.) ____________________________________________
 
Agosto 2009
Volsi appena il capo per dare uno sguardo alla sveglia digitale sul comodino. Le due e mezza del pomeriggio. 10 Agosto, per quello non avevo bisogno di guardare nessun calendario.
Avevo la bocca impastata, un sapore disgustosamente dolciastro che saliva dal palato sino a impregnare le narici, dandomi il voltastomaco. Sapevo che se non mi fossi alzata immediatamente per prendere qualcosa avrei iniziato la giornata di testa nel cesso, come avevo concluso la precedente.
E allora lo feci, mentre il mondo mi barcollava intorno come sul seggiolino di una giostra impazzita, raggiunsi la cucina buia. Dovetti concentrarmi parecchio per centrare il bicchiere col collo della bottiglia, e bevvi fino a non poterne più, tracannando uno dopo l’altro bicchieri di acqua ghiacciata che mi gelavano lo stomaco vuoto, ben sapendo che di lì a poco sarei stata male. C’era sempre un sottile, perverso piacere nel sapere di farmi male. Ogni volta osavo sempre di più, chiedendomi quale sarebbe stata l’ultima, quella in cui avrei osato troppo.
Mi avvicinai alla finestra reggendo ancora in mano il bicchiere ghiacciato, le mani che bruciavano al contatto.
Fuori c’era l’inferno. Una cappa umida e infuocata, in media trentanove gradi all’ombra, teneva sotto scacco da giorni una città fantasma, deserta e perduta come le bibliche città del peccato. Il vento caldo di scirocco alimentava la fornace a ondate regolari, in attesa che il Signore facesse piovere dal cielo zolfo e fuoco….era scritto così nella Bibbia, no?
Reminescenze del mio catechismo da parrocchia di provincia. Anche la nausea andava a ondate, a tratti quasi spariva, a tratti si divertiva a cogliermi di sorpresa, portandomi sull’orlo del vomito. Al suo placarsi si acuivano tutte le sensazioni che le medicine avevano sospinto ai confini della mia percezione. Avevo caldo, terribilmente caldo, mi sembrava di respirare fuoco, mi mancava ossigeno, l’aria bruciava nei polmoni.
E poi ancora quel ronzio nelle orecchie, il mal di testa, i pochi rumori attorno a me – il ticchettare di un orologio, qualche auto e voci lontane in strada – che rimbombavano e si moltiplicavano, diventando chiasso assordante. Avevo ventuno anni, facevo il secondo anno di università e sapevo che se fossi stata una ragazza normale quel giorno non mi sarei trovata lì, completamente sola.
Si avvicinava ferragosto, giorni di vacanze, di sole e di mare, giorni in cui in tv davano solo vecchi film e i telegiornali ti rimbambivano di immagini di gente che sguazzava felice nell’acqua o faceva passeggiate in montagna, gente che ballava a piedi nudi in discoteche che per soffitto avevano il cielo stellato e prendeva aerei per volare dall’altra parte del mondo, alla scoperta delle meravigliose terre che per destino in questa vita non gli erano appartenute. Tra questa gente c’erano le mie sorelle, mio padre e i pochi amici che negli anni avevo perso con la stessa facilità con cui si perdono gli spiccioli dalle tasche bucate.
Vedevo la felicità ovunque mi girassi. Che fosse sincera, ostentata, esagerata o semplicemente finta, che importava? Tutti per l’occasione speciale indossavano la loro maschera migliore. Io non ne avevo mai posseduta una.
Sono sempre stata quella diversa, quella che non sorride mai, che non fa le cose che ci si aspettano da lei, che trova difficoltà ovunque, quella che non ha mai imparato a vivere.
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Da qualche parte – credo fosse un libro di scuola - una volta ho letto che ogni essere vivente possiede un primordiale, insopprimibile, istinto di sopravvivenza che lo porta a preservare la vita ad ogni costo. Per questo motivo il mondo è quello che è: gente che ama, lotta, uccide, fa le guerre, desidera il potere, si arrabbia, sbaglia, mente, si ubriaca, fa i figli.Tutta gente che non può fare a meno di vivere. Ma c’è anche quella come me, la gente difettata per natura, quella che vuole morire.
 
Un anno prima 
Quella sera stavo rientrando in anticipo dalla pizzeria dove per qualche giorno avevo lavorato come cameriera, un lavoretto estivo per contribuire ai miei studi, ben decisa a non farvi più ritorno.
Mi sforzavo di non piangere mentre dribblavo i passanti sul marciapiede, con la borsa che mi scivolava sulla spalla sudata e gli ultimi, aranciati, raggi di sole che brillavano sui vetri delle auto parcheggiate in doppia fila.
Di tanto in tanto passavo davanti a uno di quei bar alla moda dove i lavoratori di agosto si attardavano per l’aperitivo, accalcandosi attorno ai tavolini in ferro battuto per sorseggiare bibite dai colori accesi, in un ben misero surrogato dell’estate in vacanza.
L’asfalto restituiva moltiplicato per dieci il calore accumulato in quelle torride giornate e io non vedevo l’ora che tornasse l’inverno, perché il caldo acuiva in maniera spaventosa il mio malessere.
Avevo avuto il primo attacco di panico pochi giorni prima della maturità. Erano passati già diversi anni dalla morte di mia madre, eppure la sognavo ancora spessissimo; quella notte stavamo giocando sull’altalena della casa di campagna dei nonni paterni, era primavera, lei aveva un vestito a fiori arancione e mi spingeva forte, la sua risata argentina rimbalzava tra gli ulivi mentre io volavo in cielo, sempre più in alto, fino a sentire sulle guance il tocco soffice delle nuvole.
Poi d’improvviso il sogno si era fatto incubo.
Nuvoloni neri avevano inghiottito la campagna, l’altalena, mia madre, e io mi ero svegliata di colpo, il pigiama zuppo di sudore e il respiro spezzato, con una paura folle che m’impediva di ragionare sensatamente. Era corsa a spalancare la finestra, cercando aria, ma questa non bastava mai, mi sembrava di respirare a vuoto e per dei minuti infiniti fui certa di stare per morire. Fu come lanciare uno sguardo fugace sul fondo della mia anima, squarciando il fragile velo di inconsapevolezza che mi teneva legata a terra, e quel che vidi mi riempì di terrore: una solitudine totale, senza speranza.
Alla fine l’attacco passò, come sarebbe passato mille altre volte dopo allora, ma la paura e il dolore no, quelli non sarebbero passati mai. A volte trascorrevo intere settimane chiusa in casa, incapace perfino di scendere al tabacchino all’angolo, consapevole dell’assurdità del mio comportamento eppure incapace di fare altrimenti. Nessuno mi capiva, né mio padre, né le sorelle, né le amiche, ma potevo forse biasimarli?
Da anni ero in cura da uno psichiatra, perché delle tre figlie ero stata l’unica a vedere ancora mia madre dopo la sua morte.
Mi dissero che non era normale vederla che mi aspettava fuori da scuola o parlare con lei mentre si affaccendava in cucina, all’ora di cena. Mi dissero che era morta e che dovevo farmene una ragione, che il dottore e le gocce magiche avrebbe fatto sparire per sempre la sua immagine, la sua voce, il lieve profumo di mughetto che lasciava una traccia inconfondibile dietro di sé …eppure come potevo desiderare questo, se era l’unica cosa che mi rimaneva di lei? Ma alla fine mia madre morì per la seconda volta, continuò a tornare solo nei miei sogni, con una frequenza impressionante, e questo la gente sembrò accettarlo di buon grado.
Finito il liceo conobbi Andrea e mi trasferii a vivere con lui a Firenze, dove per un po’ trascorsi i giorni più belli della mia vita.
Mi sentivo quasi una ragazza come tutte le altre: avevo un fidanzato, un lavoretto part-time, una casa in affitto e soprattutto un sogno, banale se volete, ma pur sempre un sogno, quello di farmi una famiglia e diventare una scrittrice.
Allora non sapevo quanto la depressione potesse esser subdola.
Quando tutto sembrava girare per il verso giusto, quando avevo ridotto drasticamente la mia razione quotidiana di prozac e tavor e racimolato la voglia necessaria per alzarmi ogni giorno dal letto, di punto in bianco ebbi un crollo pauroso.
Una serie di violenti attacchi di panico mi costrinse nuovamente in casa, preda delle ossessioni e delle fobie più impensabili.
Di notte se andava bene dormivo un paio d’ore e di giorno ciondolavo tra il letto e il divano, esausta e confusa; avevo sbalzi d’umore impressionanti, a volte ero assurdamente felice, spostavo i mobili e mi mettevo a pulire cantando a squarciagola, un’ora dopo mi chiudevo in un ostinato mutismo e pensavo al modo migliore per farla finita.
Andrea non capiva, e il nostro rapporto entro irrimediabilmente in crisi. Ma in quella torrida serata di agosto di un anno fa stavo tornando a casa perché volevo un suo abbraccio.
Salii le scale lentamente, concentrandomi sul respiro, sforzandomi di ignorare le urla dietro le porte degli appartamenti. Non era un gran quartiere, quello dove abitavamo.
Non appena misi piede in casa mi resi conto che qualcosa non andava. Troppo ordine – niente posacenere stracolmo di cicche sul tavolinetto dell’ingresso, niente magliette di Andrea accatastate alla rinfusa sull’attaccapanni – e troppo silenzio – niente musica rock sparata a tutto volume, la tv spenta.
“Stavolta se ne è andato sul serio” Pensai.
In un certo senso se n’era andato già da parecchio. Non ci parlavamo quasi più, e quando mi chiedeva qualcosa – domande tipo “mi passi il sale?” oppure “quando esci, puoi comprare lo shampoo?” – fissava sempre un punto oltre la mia spalla, quasi temesse di trovarsi a guardare in fondo ai miei occhi. Negli anni mi sono resa conto che alla gente facciamo paura perché non ci capisce, e perché ha paura che la prossima volta toccherà a lei.
Proseguii lungo il corridoio che portava nel minuscolo soggiorno e di lì andai in camera da letto, dove trovai Andrea che chiudeva l’ultimo borsone mentre gli altri, quattro in tutto, erano ammonticchiati ai piedi del letto. Quando mi vide sbiancò di colpo e scosse impercettibilmente il capo mentre crollava a sedere sul letto, rassegnato all’inevitabile.
Era evidente che aveva pensato di andarsene senza una parola per me, di fuggire mentre ero via per non dovermi affrontare, e credo fu quella la cosa che mi fece più male.
Non ho mai saputo esattamente cosa provassi per Andrea, se lo amassi o gli fossi semplicemente affezionata, andava a momenti, seguendo probabilmente le fasi alterne della malattia.
Per quelli come me anche i sentimenti sono roba complicata, imprevedibili, sovrapposti, confusi e ingannevoli, un’altalena emotiva che può trascinarti in alto fino a vette d’amore impensabili per i comuni mortali, per poi scaraventarti in basso con uguale forza, scavando in profondità di dolore inesprimibili a parole.
Per questa ragione fino al giorno prima avevo odiato Andrea, avevo desiderato con tutte le mie forze che sparisse dalla mia vita, e ora che invece lo vedevo seduto sul nostro letto, il capo tra le mani e l’espressione abbattuta, intorno a sé i segni del vuoto che avrebbe lasciato – l’armadio saccheggiato, il comodino svuotato, batuffoli di polvere al posto delle sue ciabatte e della chitarra – d’improvviso lo amai moltissimo. Non poteva andarsene. L’avrei supplicato, se necessario, sarei strisciata in ginocchio per chilometri di pietre appuntite come spine, se fosse stato necessario. Sarei perfino morta.
Anche le parole sono diverse, per noi. Non sono mai leggere, dette tanto per dirle, sono profondamente e tremendamente reali fino in fondo al loro significato, soprattutto quelle assolute.
“Che fai?” Una domanda puramente retorica, per rompere l’orrendo silenzio, cercando di controllare il tremito nella mia voce.
“Non lo vedi?” Non alzò lo sguardo da terra.
I capelli lunghi, spettinati, cadendo in avanti gli coprivano il viso, e io avrei voluto scostarglieli per baciarlo, stringerlo e supplicarlo di rimanere con me. Ma non lo feci.
“Te ne vai” Voleva essere una domanda, ma uscì come un’affermazione. Che altro c’era da dirsi, in fondo?
Lui si alzò in piedi, afferrò un paio di borsoni e avanzò nella mia direzione, verso la porta, lo sguardo ostinatamente fisso oltre le mie spalle. Fu allora che qualcosa si spezzò.
Vivevo temendo il momento in cui sarebbe accaduto, come sul ciglio di un baratro aspettavo solo il colpo di vento più forte che mi avrebbe spinta giù.
Dell’aggressione ricordo solo frammenti, un puzzle incompleto che non ricostruirò mai: tra quei pezzi ci sono il suono secco di uno schiaffo, le mie urla, le sue urla, uno specchio che si rompeva in un fragore assordante, ricordo mani che tiravano capelli, sangue, il pavimento freddo, un sapore acre sul palato, il vetro di Murano di un suppellettile appuntito che stringevo tra le dita, il tonfo del mio corpo contro un mobile. Ricordo una furia incontrollabile e poi solo il buio della mia camera da letto, il guanciale freddo e bagnato.
Dopo tre giorni decisi che poteva bastare.
Le benzodiazepine non sono come i barbiturici, non bastano per farla finita, nemmeno se ti scoli un intero flacone e magari ci aggiungi pure una bottiglia di vodka. Tuttavia racimolai quello che riuscii a trovare in casa e lo portai in bagno, le lamette le avevo già comprate durante uno dei buchi neri dei giorni passati.
Una volta ho letto una frase di Nietzsche che diceva più o meno così: “Il pensiero della morte è un efficace strumento di consolazione, che aiuta a passare molte notti”.
Mi era rimasta impressa perché capivo perfettamente cosa volesse dire. La morte era anche il mio personale strumento di consolazione, la accarezzavo nei pensieri, ne cullavo il sogno e coltivavo l’idea del suicidio come se fosse l’unica piantina a crescere e proliferare in un giardino devastato.
Ma feci l’errore di non avvisare mio padre o le mie sorelle che stavo bene, seppur molto impegnata con l’università. Avevo invece il telefono staccato da giorni, e il risultato fu che uno di loro – credo sia stata mia sorella maggiore, ma non mi sono mai curata di accertarlo – piombò in casa parecchio prima della fine, quando ancora dormivo il sonno comatoso degli ansiolitici e avevo inzuppato di sangue solo pochi centimetri di piumone.
Mi diagnosticarono un disturbo depressivo maggiore, e dal momento che non parlavo e rifiutavo il cibo, limitandomi a trascorrere le mie giornate a letto o seduta sulla poltrona accanto alla finestra, alla fine mi ricoverarono in una casa di cura per malati psichiatrici. I miei ricordi ricominciano da lì.
Del mese che trascorsi a casa ricordo solo tante voci che mi parlavano da ogni direzione, ma io non capivo cosa dicevano, né mi importava. La mia mente fluttuava inquieta in un mare di pensieri caotici, dove si sbizzarriva in associazioni insensate, pescando parole e immagini dal passato per ricomporle come più le piaceva; da quel caos indistinto emergeva con chiarezza soltanto il volto di mia madre.
La casa di cura si chiamava “Il Ciliegio”, in omaggio alla moltitudine di alberi che ricoprivano la campagna tutt’intorno, e a prima vista ricordava in tutto e per tutto una modesta pensione di montagna: aveva camere piccole e confortevoli, dotate di tv e di un terrazzino che si affacciava sulla distesa di verde, infissi in legno, un ristorante con linde tovaglie a quadri e una stanza comune per le attività di gruppo. Mentre mettevo la mia roba nel minuscolo armadio a muro, sforzandomi disperatamente di sistemare ogni cosa secondo un criterio logico, come mi aveva raccomandato la dottoressa, pensai che quella stanza non mi riguardava affatto. Non intendevo certo partecipare alla vita altrui, volevo solo starmene per conto mio e dormire il più possibile.
Ma le medicine che mi davano erano sorprendentemente blande, incapaci di stordirmi, e con disappunto scoprii che uno degli obiettivi primari dell’istituto era proprio quello di farmi interagire con gli altri malati, di farmi partecipare a una specie di vita collettiva che si svolgeva tra sedute di psicanalisi, momenti di svago e di lavoro, passeggiate, tornei di carte, giardinaggio e – con mia somma sorpresa – perfino un corso di scrittura creativa.
I primi giorni, quando aprivo gli occhi, pensavo di mettermi a urlare, chiudere a chiave la porta e dire a tutti di fottersi, che tanto io non mi sarei mossa da lì.
Ma non c’era nessuna chiave, e in ogni caso la cosa mi sarebbe costata troppa fatica, così mi alzavo e per tutta la giornata mi trascinavo stancamente da una stanza all’altra. Controllavo di continuo l’orologio e attendevo l’arrivo della sera come un carcerato che guardi oltre le sbarre della sua cella, agognando la libertà, che per me è sempre stata l’incoscienza.
Un giorno, tornando in camera per il riposo pomeridiano, mi stesi sul letto e quando mi voltai verso la finestra quasi mi venne un colpo nell’accorgermi della figura raggomitolata a terra, che mi fissava con occhi vitrei, le mani scarne artigliate al copriletto.
“Chi sei?” Balzai in piedi, soffocando un urlo.
Non l’avevo mai vista prima. Era una poco più che una ragazzina, magra e pallida, i capelli biondo cenere arruffati e i lineamenti perfetti, degni di una rivista di moda. Non accennava a muoversi né a parlare mentre io mi muovevo frenetica per la stanza, cercando di ricordare dove fosse il pulsante per chiamare l’infermiera e pensando a qualcosa da usare come arma.
Il meglio che riuscii a trovare fu il telecomando, glielo agitai contro mentre lei continuava a rimanere assurdamente immobile, una statua di pietra che non mi seguiva nemmeno con gli occhi: oltre quella superficie celeste, chiara e inespressiva, sembrava esserci il nulla. Un brivido freddo mi attraversò il corpo, ricordando che quello in definitiva era un manicomio.
Ma quando arrivarono gli infermieri Greta, si chiamava così, non oppose alcune resistenza. Li seguì docile lungo il corridoio, soltanto una volta si girò per guardarsi indietro, ma non saprei dire se mi avesse davvero messa a fuoco.
Greta aveva la mia età ed era gravemente schizofrenica.
Raramente partecipava alle attività di gruppo, la sua malattia le impediva quasi tutto, ma da allora mi capitò molte volte di entrare in camera e trovarmela nascosta dietro la sponda del letto.
Non mi spaventavo più, mi limitavo a chiamare le infermiere e le attendevo seduta sul letto, ricambiando quello sguardo vacuo che non mutava mai. Una volta le rivolsi la parola.
“Hey, Greta, ma di un po’, ti diverti a giocare a nascondino?” Dissi. Una frase stupida, l’unica che mi venne in mente. A guardarla così stentavo a credere che avesse la mia età, sembrava una bambina incantata, prigioniera in un mondo tutto suo, inaccessibile agli altri.
Eppure quella volta sorrise. Alle mie parole le sue labbra si piegarono leggermente in su e, cosa ancor più straordinaria, per una frazione di secondo negli occhi le scintillò un lampo di vita che mi commosse. Ricambiai il sorriso, sentendo per la prima volta dopo anni un morsetto di felicità pizzicarmi il cuore.
Nel frattempo in istituto mi ero ambientata diventando anche piuttosto popolare. Lì non c’era bisogno di fingere di star bene, non c’erano obiettivi da raggiungere ad ogni costo, giudizi da temere né comportamenti “normali” con cui confrontarsi, c’eravamo solo noi, nel bene e nel male. Nessuno ti guardava storto se scoppiavi a piangere nel bel mezzo di un discorso o se per un’intera giornata ti chiudevi in un ostinato mutismo. Una volta chiesi alla dottoressa Giannotti, la psichiatra che mi seguiva, “Cos’è la normalità?”. Lei apparve confusa, si sistemò sul naso gli occhiali di corno che le scivolavano sempre e sospirò piano.
“Per me la normalità non esiste” Risposte “O meglio, è relativa, è quella caratteristica che prevale in un gruppo. Il che, se ci rifletti, vuol dire che la normalità non esiste”.
Ma purtroppo la vita non era quel gruppo. Il mio periodo di serenità ebbe durata più breve del previsto: dopo Natale fui dichiarata sufficientemente guarita per poter essere ributtata nel mondo normale, così preparai ordinatamente la valigia – niente a che vedere col caos informe che vi regnava all’inizio del mio soggiorno – e me ne andai senza nemmeno una parola di saluto per Greta.
Mi giustificai dicendomi che tanto non le sarebbe importato, perché probabilmente non mi aveva mai conosciuta per davvero, ma dentro me sapevo che il vero motivo era un altro.
Per avere qualche possibilità nel mondo reale, dovevo lasciare fuori ogni ricordo di quel luogo così diverso.
 
Agosto 2009
Però succede che anche se noi vogliamo abbandonare i ricordi, questi non abbandonano noi con la stessa facilità.
Lo capii dallo sguardo che mi lanciò la vicina di casa quando tornai a casa di mio padre, uno sguardo pietoso e diffidente, quasi fosse alla presenza di una gatta selvatica che avrebbe potuto saltarle in faccia da un momento all’altro. Poi ci furono gli sguardi di tutti gli altri, quelli che quando mi chiedevano “Dove sei stata in questo periodo?” e io rispondevo “In una casa di cura psichiatrica” – a volte dicevo “per malattie nervose”, come mi aveva suggerito mia sorella – mi guardavano come se fossi un extraterrestre, gli occhi che saettavano ovunque pur di non incrociare più i miei.
Alla fine smisi di rispondere.
Per quanto mi riguarda, al mondo esistono fondamentalmente due tipi di diversità, quelle visibili e quelle invisibili. Ma non saprei dire cosa sia peggio. A volte ho desiderato disperatamente essere marchiata anche nel corpo, cosicché la gente capisse e riconoscesse il mio dolore, e sopratutto non si aspettasse nulla da me; altre volte invece sono stata felice di passare inosservata, una qualunque ventenne, carina e intelligente senza troppe pretese.
Solo che così era molto più difficile spiegare – e spiegarmi – cosa in definitiva ci fosse in me che non andava. Ero una borderline, senza appartenenza, né da un lato né dall’altro della barricata: troppo normale per essere malata, troppo malata per esser sana.
Nel frattempo tornai a vivere a Firenze, in un monolocale di periferia, dalla parte opposta della città rispetto a dove abitavo prima, e la depressione tornò ad abitare assieme a me.
Passavo intere giornate a letto, non mangiavo e mi alzavo solo per telefonare a mio padre. Quel pomeriggio d’estate, esattamente un anno dopo il mio primo, patetico, tentativo di suicidio, ero ben determinata a riprovarci e a fare in modo che questa volta fosse quella giusta. Ancora una volta avevo sognato mia madre, rivivendo una scena accaduta un pomeriggio di moltissimi anni prima, quando ero tornata da scuola e come sempre nell’ultimo periodo l’avevo trovata ancora a letto, il colorito cadaverico e gli occhi pesti, rossi per le lacrime versate.
Quel giorno però, quando aprii titubante la porta della sua camera, mi fece cenno di avvicinarmi, mi fece sedere sul letto e mi accarezzò il viso. Ero bello sentire il fresco della sua mano sulle guance accaldate, sapere che mia madre, il mio rifugio felice, dopo giorni in cui non aveva voluto vedermi, era tornata a volermi bene. L’abbracciai stretta, avrei voluto stare sempre con lei.
“Mi dispiace” La sentii bisbigliare con le labbra premute contro i miei capelli “Mi dispiace di non essere una madre come le altre, mi dispiace lasciarti sola”.
Ma quel giorno non mi importavano le parole, volevo solo farmi cullare dalla dolce cantilena della sua voce.
“Non importa” Risposi “Tu sei una mamma speciale”.
Qualche giorno dopo seguivo il suo feretro vestita di nero, un orribile vestitino da bambola in trine e pizzo che mi aveva comprato la nonna paterna. Mia madre si era uccisa, era finalmente libera.
Andai alla finestra e la spalancai. Una nuvola calda mi avvolse, mentre decine e decine di metri sotto la città brulicava di suoni e colori, viva come sarebbe stata fino alla fine dei tempi.
Ero assurdamente felice al pensiero che per me fosse già arrivata.
Nel mondo non c’è spazio per quelli come me, mi piace pensare che siamo capitati qui per sbaglio, destinati a un altro pianeta dell’universo, un mondo in cui non esiste il dolore e nemmeno la diversità, perché siamo tutti diversi, una varietà infinita di colori.
Mi piace pensare che lì troverò mia madre che si diverte a creare ghirlande di fiori, che ci daremo il cambio sull’altalena e mangeremo zucchero filato dalle nuvole…mi piace pensare che non dovrò più preoccuparmi di chi sono, esisterò e basta.
Pensavo a tutto questo, mentre volevo giù nel caldo della mia ultima estate…

***
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