Licia Satirico per il Simplicissimus
Negli ultimi giorni, due fugaci puntate del Laziogate hanno rivelato molto più di una semplice faccia bronzea: siamo di fronte a un’inconsapevolezza simulata e rapinosa, a un sistema partitico ormai incapace di distinguere tra privato e pubblico, ad organi politici privi di difese immunitarie per la sindrome da Pdl acquisito.
L’episodio più recente riguarda le dichiarazioni di Franco Fiorito durante la trasmissione televisiva “In Onda”: «non sono un ladro, non mi sento un ladro e non si scoprirà che lo sono». Insomma, l’unica colpa di Fiorito è stata quella di aver gestito leggiadramente ingenti somme di denaro, ma senza cattiveria: lo disegnano così, come Jessica Rabbit. A prescindere dall’accertamento futuro delle responsabilità penali per fatti non proprio interiori, colpisce che Fiorito esterni il non percepirsi soggettivamente come ladro. È una frase che rivela un mondo: negli ultimi vent’anni il parlamento italiano si è preoccupato di ratificare con leggi ad hoc l’atteggiamento intimo di chi non si sentiva corruttore, non si giudicava responsabile, non si valutava idealmente colpevole a dispetto dell’ostinata persecuzione della magistratura reale. È, ancora una volta, la hybris di una classe politica che è riuscita a piegare il Paese alla propria concezione personale dell’illecito, creando per sé uno statuto di impunità assai diverso da quello dei comuni mortali: quelli a cui si promettevano meno tasse per tutti e i nuovi miracoli italiani.
Delle due l’una: o Fiorito è realmente convinto di non aver fatto nulla di grave, e allora siamo di fronte all’inumazione trimalcionica dell’etica weberiana, o pensa di poter convincere noi con la stessa potenza del suo ment(it)ore politico. Il dilemma è solo apparente: er Batman precisa freudianamente che non riusciremo a scoprire che è ladro, non che scopriremo che non lo è. Perché, anche quando non ci si sente ladri, è meglio avere le opportune pezze d’appoggio per non incappare in antipatici dissidi tra Sein e Sollen.
Il secondo episodio ha carattere antropologico e riguarda il comportamento inquieto di Renata Polverini, che annuncia le dimissioni e si tormenta infliggendosi lunghi incontri con Monti e con Alfano, ma non si dimette. La presidente della Regione Lazio, dopo aver precisato il costo e la provenienza lecita del suo abito, ha paragonato la corruzione al tumore che le è stato estirpato dalla gola: questo non è bastato, come si sa, ad estirparla dalla poltrona. Si è dichiarata inorridita dagli sprechi e ne ha parlato come se fossero accaduti in un’altra dimensione spazio-temporale, in un altro consiglio regionale, in un’altra vita. Ora attende gli eventi e le mozioni di sfiducia.
Siamo sin troppo abituati ai politici che si cospargono il capo di cenere e annunciano rigore, contrizione e ricerca dei responsabili. Soprattutto siamo rassegnati alla categoria degli ignari, sempre pronti a declinare qualunque tipo di complicità in fatti che sarebbero stati perpetrati sotto i loro occhi da ignoti filibustieri. Non eravamo ancora pronti, però, all’autocommiserazione strumentale, al paragone pietistico e oltraggioso tra corruzione e neoplasia, all’associazione tra la propria sofferenza personale e la necessità di contrastare l’uso improprio di denaro pubblico. Il tutto si traduce, a sua volta, nell’uso improprio di tumore a fini mediatici: uno spettacolo di cattivo gusto offerto a tutti i malati di tumore che non possono essere curati nelle Regioni della spending review, dove gli ospedali sono privi delle risorse affidate incautamente da persone come la Polverini a consiglieri che non si sentono ladri.
Il cancro è un dramma e Renata Polverini dovrebbe saperlo: non può essere accostato a un peculato trionfale, esibito senza alcun tipo di resipiscenza tra una minaccia di dimissioni e una dichiarazione di sgomento. Non mescoliamo la malattia innominabile a fasciste cubiste, nazisti rumeni, saluti romani, ostriche e feste in costume: l’accostamento del tumore alla corruzione turba la dignità e offende la speranza di chi proprio non riesce a sentirsi Polverini.
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