Il 15 giugno 2013 la casa editrice Irfan ed “Eurasia. Rivista di studi e geopolitici”, in collaborazione con l’Associazione Imam Mahdi e con l’Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran, hanno organizzato a Roma la presentazione del libro di Ali Reza Jalali “La Repubblica Islamica dell’Iran tra ordinamento interno e politica internazionale” (Edizioni Irfan, 2013). Oltre all’autore del libro, sono intervenuti come relatori: Giuseppe Aiello (editore del libro), Ali Pourmarjan (direttore dell’Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran) e Claudio Mutti (direttore della rivista “Eurasia”), del quale riportiamo di seguito l’intervento.
Ali Reza Jalali si propone di rendere comprensibile il concetto di “Repubblica Islamica”, cercando di spiegarlo sulla base delle categorie politologiche “occidentali”.
“Bisogna vedere - egli scrive – se un termine come ‘Repubblica’ non sia in contraddizione con un sistema islamico che è legittimato da Dio, essendo il modello repubblicano legittimato normalmente dal popolo. La ‘Repubblica’ di cui si parla in Occidente è sicuramente in antitesi con uno Stato islamico, ma il punto fondamentale è che per i costituenti iraniani ‘Repubblica’ vuol dire semplicemente la possibilità che i cittadini possano scegliere i propri governanti, senza però che vi sia una ‘legittimazione democratica’ dell’ordine costituito” (p. 20).
L’Autore ha fatto benissimo a usare il tempo presente (“si parla”) e a delimitare l’area culturale (“in Occidente”).
L’antitesi infatti scompare, qualora si faccia riferimento alla concezione di “repubblica” quale si evince dalle dottrine politiche di una cultura che non è quella della modernità e dell’Occidente, ma è quella della tradizione europea: la cultura dell’antichità greco-romana.
Proviamo infatti a ricondurre il concetto di “repubblica” a quello espresso dal latino res publica, riprendendo la definizione che ne dà Cicerone nel I libro del trattato intitolato per l’appunto De re publica. Qui la res publica viene definita come l’organizzazione unitaria di un aggregato umano reso solidale non solo dal comune vantaggio, ma, prima ancora, da una comune coscienza giuridica: “coetus multitudinis juris consensu et utilitatis communione sociatus“.
La res publica è definita da Cicerone come res populi, “ente del popolo”. Ma, per quanto riguarda il fondamento ed il fine da cui essa deriva la sua legittimità, Cicerone li indica chiaramente allorché nel Somnium Scipionis, che suggella il trattato De re publica, afferma che l’azione dell’uomo politico si accosta alla suprema volontà di Dio, cosicché a coloro che hanno operato per il bene dello Stato sono riservate in cielo una vita immortale e una felicità eterna.
D’altronde l’ordinamento politico che Cicerone chiama res publica non è sostanzialmente diverso da quello che Platone e Aristotele chiamano politèia.
Nel III libro della Politica, esaminando i diversi regimi politici, Aristotele distingue tre forme corrette di Stato: la basilèia (cioè la monarchia che agisce per il bene comune), l’aristokratìa (il governo dei migliori ovvero il governo inteso a realizzare ciò che è meglio per i cittadini) e, appunto, la politèia (quello in cui il popolo governa la polis in vista del bene comune). A questi tre tipi “buoni” corrispondono altrettante deviazioni (parekbàseis): la tirannide, l’oligarchia e la democrazia (tyrannìs, oligarchìa, demokratìa).
E’ più o meno lo stesso schema politologico che troviamo in Platone, il quale chiama politeia (res publica) il suo Stato ideale, uno Stato, una “Repubblica”, che svolge una funzione eminentemente “religiosa”, in quanto collega la comunità umana con la realtà divina.
La legittimazione divina e lo scopo trascendente che caratterizzano la Repubblica Islamica consentono all’Autore può stabilire un’altra differenza fondamentale rispetto agli Stati dell’Occidente.
“Lo Stato iraniano - egli dice – non è una Repubblica laica in senso occidentale, in quanto la legge di Dio è comunque sovraordinata alla legge dell’uomo, ma non è nemmeno una teocrazia classica nella quale i cittadini non hanno voce in capitolo, come ancora oggi avviene in alcuni paesi mediorientali” (pp. 20-21).
Per quanto riguarda la laicità, non sarà fuor di luogo ricordare che in origine il termine “laico” (dal greco laikós, “volgare”, “profano”) si contrappone propriamente a “chierico” (col significato di “dotto”) e designa perciò l’individuo ignorante, cosicché risulta più che fondata questa osservazione di René Guénon:
“Vale la pena di notare che certa gente, che nella nostra epoca si vanta di essere ‘laica’, insieme con quella che si compiace di dirsi ‘agnostica’ (e spesso si tratta delle stesse persone), non fa altro che gloriarsi della propria ignoranza; e questa ignoranza deve essere in effetti molto grande e veramente irrimediabile, se non si accorge che tale è il significato delle etichette di cui si fregia”.
Tuttavia, anche se intesa nel significato corrente di separazione della politica dalla religione e di estraneità dello Stato rispetto alle questioni religiose, la nozione di laicità risulta del tutto incompatibile con la cultura islamica, in quanto secondo quest’ultima la legge dello Stato deve fondarsi sulla giurisprudenza sciaraitica, la quale a sua volta procede dai principi insiti nel Corano e nella Sunna del Profeta.
(A questo proposito sarebbe il caso di osservare che Stati musulmani comunemente considerati “laici” smentiscono in maniera incontestabile tale qualifica. Cito come esempio la Siria, la quale nel suo stesso dettato costituzionale – art. 3, comma primo e comma secondo – dichiara che fonte principale della legislazione è il diritto islamico e che il presidente deve essere di religione musulmana).
Rifiutata la definizione di Stato teocratico – definizione che risulta imbarazzante, in quanto correntemente applicata a regimi politici corrotti in cui la religione è instrumentum regni – l’Autore propone un’altra definizione.
“Attraverso una forzatura - dice – si può affermare che ‘Repubblica Islamica’ vuol dire ‘uno Stato teocentrico nel quale vigono le elezioni’ ” (p. 20).
A mio parere la definizione di “Stato teocentrico” non è affatto una forzatura, anzi: “Stato teocentrico” mi sembra una formula eccellente per definire la Repubblica Islamica.
Volendo, però, si potrebbe trovare una soluzione corrispondente a quel concetto che la lingua persiana esprime mediante il costrutto velayat-e faqih, “governo del giurisperito”. Si potrebbe cioè coniare un neologismo come nomocrazia, che significherebbe il “potere della legge”; o come teonomia, che indicherebbe il “governo della legge divina” (dove l’elemento di composizione nomo, dal greco nómos, significa “legge”, “principio normativo”).
Ancora una volta, il termine di paragone più adeguato è quello che ci proviene dalla politologia della tradizione europea, in particolare da Platone: quel Platone che Al-Farabi onorò dell’epiteto di Aflatun al-Ilahi (“divo Platone”) e riconobbe come maestro, al punto che l’Imam della sua “repubblica islamica” (al-madinah al-fadilah) è stato definito come un “Platone rivestito del mantello di profeta di Muhammad” (H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Milano 1973, p. 169).
Infatti Platone, raccontando il mito dell’età di Crono (Leggi 713b sgg.), ci esorta a proclamare come norma fondamentale e sovrana dello Stato quella Legge dettata dallo spirito, quel nómos, che si manifesta in noi come dianomè tou nou (714a) ossia come regola e guida dell’intelligenza.
Contraddicendo quel sostenitore assoluto dei diritti umani che fu il sofista Protagora, Platone afferma che non l’uomo, ma Dio è misura di tutte le cose: (ho dè theòs hemin pànton chremàton métron àn eìe) (716c). Perciò, dato il limite oggettivo della natura umana (anthropeìa physis), è necessario che l’uomo sia sottomesso a Dio e che il governo della Repubblica abbia radici nella saggezza divina. L’uomo che deve reggere lo Stato, conclude Platone, dev’essere il miglior conoscitore delle leggi e deve essere superiore ai suoi concittadini per altezza di costume, di pensiero e di azione.
Sono gli stessi concetti che risuonano nella dottrina politica islamica, così come è stata formulata dall’Imam Khomeyni in Hukumat Eslam:
“Il governo islamico è il governo della Legge e Dio solo è il sovrano ed il legislatore. (…) Nell’Islam governare significa obbedire alla Legge e renderla supremo giudice. I poteri conferiti al Profeta, che Dio lo benedica e lo salvi, ed ai governanti legittimi a lui succeduti sono poteri derivati da Dio. (…) Considerato che il governo islamico è un governo della Legge, è necessità assoluta che il governante dei Musulmani sia ben informato della Legge, come dice il hadith (…) E’ un fatto riconosciuto che ‘le persone esperte della Legge hanno la superiorità anche sui re’ ” (Imam Khomeini, Il governo islamico, pp. 70-71 e 77-78).
Il libro di Ali Reza Jalali si conclude proprio con la citazione di una frase dell’Imam Khomeini che dice: “Sostenete il governo del giurisperito islamico, affinché il Paese non subisca danni” (p. 96).
Siccome la maggior parte del libro è dedicata ad illustrare la collocazione della Repubblica Islamica nel contesto internazionale, cercherò di applicare all’Iran i criteri della geopolitica.
Secondo le elaborazioni della geopolitica di scuola britannica, l’Iran è un segmento centrale di quella lunga fascia che in un libro di Nicholas J. Spykman uscito del 1944, The geography of peace, viene chiamata Rimland. In inglese, rim significa “bordo, orlo, margine”, per cui il Rimland è il bordo esterno del continente eurasiatico: dalle coste atlantiche e mediterranee dell’Europa fino al Giappone e alla Corea, passando per il Vicino ed il Medio Oriente, il Sudest asiatico, le Filippine e Taiwan.
Mentre Mackinder aveva stabilito la dottrina secondo cui chi controlla il Heartland (cioè la Russia e l’Europa orientale) domina il mondo, Spykman formulò la tesi complementare, secondo cui la potenza che controlla il Rimland non solo impedisce che il Heartland diventi il centro del potere mondiale, ma conquista essa stessa il potere mondiale. Testualmente: “Who controls the Rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world“.
Durante la guerra fredda, questa teoria ha ispirato la strategia del “contenimento” (containment) dell’Unione Sovietica. Gli USA hanno fatto di tutto per impedire che il Rimland eurasiatico cadesse sotto il controllo dell’URSS e della Cina, controllando l’Europa costiera per mezzo della NATO e le coste asiatiche per mezzo di altre alleanze militari.
Col crollo dell’URSS, il controllo statunitense del Rimland eurasiatico si è rafforzato. Tuttavia la catena non è affatto completa, perché vi sono alcuni segmenti del Rimland più difficili da controllare che non altri: sono i paesi che, in quanto renitenti al controllo statunitense, vengono denominati “paesi canaglia”, “Asse del Male” e così via. E la Repubblica Islamica dell’Iran è uno di questi. La Siria è un altro.
Secondo la prospettiva geopolitica eurasiatica, l’Iran è un segmento centrale di quella fascia islamica che si estende, in senso latitudinale, dal Maghreb arabo fino all’Indonesia. Il suo ruolo geopolitico, dunque, coincide in parte col ruolo di quella fascia islamica che, assieme all’Europa, alla Russia, alla Cina e all’India, costituisce uno dei grandi spazi in cui si articola l’Eurasia. Qualora fosse politicamente organizzata attraverso rapporti organici di federazioni e di alleanze, questa fascia islamica potrebbe costituire una barriera insormontabile nei confronti della penetrazione statunitense e rappresenterebbe il presidio meridionale dell’Eurasia.
La realtà attuale, invece, ci presenta un mondo islamico che, a parte le fisiologiche divisioni etniche, linguistiche e culturali, si trova frammentato in numerose entità statali e diviso tra diversi orientamenti politici e religiosi. A ciò si aggiunge il fatto che la storica ripartizione tra sunniti e sciiti viene oggi artificiosamente enfatizzata dagli strateghi del divide et impera, al punto che sono state create le condizioni per quella che oserei chiamare una guerra civile islamica.
Tra i vari orientamenti e modelli che l’odierno mondo islamico ci presenta, il più incompatibile con gl’interessi eurasiatici è evidentemente quello rappresentato dai regimi arabi storicamente alleati dell’Occidente atlantico (l’Arabia Saudita e Qatar in primis), nonché da quei movimenti e gruppi settari che godono del sostegno politico ed economico di tali regimi.
C’è poi un’altra variante, che è quella rappresentata dalla Turchia. La variante turca, che si è proposta come un modello per i paesi musulmani del Mediterraneo, è caratterizzata dal tentativo di conciliare l’Islam e la democrazia, la sciarìa e il capitalismo, il richiamo alla grandezza imperiale ottomana e l’appartenenza all’area occidentale, la solidarietà col popolo palestinese e il mantenimento delle relazioni con lo Stato ebraico.
Il cosiddetto “neoottomanesimo” di Ankara, che presume di poter recuperare all’influenza politica turca i territori storicamente appartenuti all’Impero ottomano, dal punto di vista eurasiatico potrebbe anche essere positivo, in quanto si prefigge l’obiettivo dell’integrazione dell’area islamica mediterranea. Ma il contributo dato dalla Turchia alla distruzione della Libia e al terrorismo settario in Siria dimostrano che il “neoottomanesimo” svolge un un ruolo subimperialista funzionale alla strategia degli Stati Uniti d’America e della loro propaggine sionista.
Per quanto riguarda la variante del cosiddetto “socialismo islamico” (variante molto impropriamente definita “laica”), essa è praticamente scomparsa dalla scena con la distruzione dell’Iraq baathista e della Giamahiria libica.
Il modello rappresentato dalla Repubblica Islamica dell’Iran può esercitare una sua legittima influenza soprattutto nel Vicino Oriente, dove paesi come l’Iraq, il Libano, la Siria e alcune zone della penisola arabica sono abitati da forti comunità sciite. In tal modo l’Iran dispone delle possibilità che gli consentono di svolgere una funzione di guida in certe zone del mondo arabo e di esercitare la propria influenza dal Golfo Persico fino al Mediterraneo.
Al di fuori del mondo arabo, l’Iran può realisticamente ambire ad avere un certo peso nel settore centroasiatico, specialmente nel Tagikistan, che è abitato da una popolazione persanofona (quella tagika); o in Azerbaigian, abitato da una popolazione in gran parte sciita che ha in Iran eminenti rappresentanti, a partire dalla stessa Guida della Rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei, che è di etnia azera; o in Afghanistan, dove il secondo gruppo etnico dopo la maggioranza pashtun è quello tagiko e dove un quinto della popolazione è sciita.
(Un fatto importante è che la lingua ufficiale dell’Afghanistan non è solo il pashtu; accanto al pashtu è lingua ufficiale anche il cosiddetto “persiano dell’Afghanistan”, il dari, abbreviazione di darbārī, che significa “corte reale”: un riferimento allo stile classico persiano e al linguaggio di corte dei Sasanidi. D’altronde, prima che verso la metà del XVIII secolo nascesse l’entità politica chiamata – con nome d’origine persiana – Afghanistan, questo paese ebbe per secoli una storia comune con l’Iran. Le formazioni imperiali dell’Iran, dall’impero di Dario fino a quello sasanide e a quello safavide nella sua massima espansione, comprendevano anche i territori dell’odierno Afghanistan).
Quanto al Pakistan e all’India, non bisogna dimenticare che per sette secoli il subcontinente indiano conobbe un dominio culturale persiano. A partire dal XIII secolo, quando venne fondato il sultanato di Delhi, prese l’avvio una cultura di lingua persiana che giunse al culmine durante l’epoca dei Moghul (saliti al potere nel 1526), dai quali i colonizzatori britannici ereditarono l’uso del persiano come lingua ufficiale dell’amministrazione, usata fino al 1835, quando venne sostituita con l’inglese. Forte di questa comune esperienza culturale, l’Iran ha mantenuto buoni rapporti con l’India; in particolare, esso ha ravvivato le relazioni con la comunità dei Parsi, gli zoroastriani dell’India, che sono consapevoli e fieri della propria origine persiana.
Infine, in virtù di questa posizione geografica l’Iran può aiutare la Russia, potenza centrale dell’Eurasia, a risolvere certe difficoltà. Se l’Iran svolge la funzione di polo meridionale dell’Eurasia, la Russia ottiene quell’obiettivo strategico che essa ha perseguito per secoli: l’accesso ai mari caldi. L’Iran, che ha millecinquecento chilometri di litorale sull’Oceano Indiano, può rappresentare una soluzione per questo problema geopolitico fondamentale. Consentendo alla Russia l’accesso alle rive dell’Oceano Indiano, l’Iran spezza l’”anello dell’anaconda”, il progetto atlantista che si propone di soffocare il Continente.
Ma ci sono altri motivi che rendono vantaggiosa per il continente eurasiatico un’azione egemone dell’Iran nell’Asia centrale ex sovietica. In Asia centrale rivaleggiano tre diverse tendenze geopolitiche: il panturchismo facente capo ad Ankara (con tutte le contraddizioni che sappiamo), l’”Islam americano” (come l’Imam Khomeini definiva il settarismo di matrice wahhabita) e infine l’Islam ortodosso, rappresentato, nella sua variante sciita, dalla Repubblica Islamica dell’Iran.
Il progetto eurasiatico può contare solo sull’orientamento filoiraniano, l’unico in grado di sottrarre questa regione al controllo diretto o indiretto dell’Occidente, che vi si esercita sia attraverso la penetrazione economica saudita e catariota sia attraverso il terrorismo sostenuto da diverse centrali. L’asse Mosca-Teheran può risolvere tutte le contraddizioni esistenti tra la Russia e i musulmani dell’Asia centrale e caucasica, contraddizioni alimentate ed utilizzate dall’Occidente per destabilizzare l’area e penetrarvi.
La funzione geopolitica dell’Iran consiste dunque nel costruire tra l’Asia centrale e l’Oriente mediterraneo un blocco geopolitico in grado di respingere l’aggressione atlantica, riattualizzando nei limiti del possibile quell’idea di impero che più volte e in diverse forme, in un passato glorioso, ha fatto sì che i diversi popoli di quest’area potessero convivere entro i medesimi confini politici e sotto un’unica legge.
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