14 DICEMBRE – Il dipartimento di Giurisprudenza, ex Facoltà, dell’Università di Verona si conferma centro di iniziativa di dibattiti e incontri culturali interdisciplinari. Proprio ieri si è tenuta infatti l’attesa lectio magistralis del prof. Angelo Fiore, dal titolo La responsabilità professionale medica e sanitaria nel terzo millennio.
Il Presidente del Collegio di Giurisprudenza, Stefano Troiano, in apertura ha salutato i presenti ricordando che il valore di questa iniziativa è dato proprio dalla sinergia tra realtà disciplinari in apparenza diverse, che tuttavia si confrontano necessariamente. “La medicina legale è fondamentale per la formazione del giurista –ha precisato- pertanto è motivo di orgoglio, per questo dipartimento, annoverare tra i suoi corsi quello tenuto dal prof. Domenico De Leo ed avere qui oggi il prof. Fiori”.
La lezione dell’ospite è stata preceduta da due relazioni introduttive. La prima, presentata dal professore aggregato di diritto civile Mirko Faccioli, ha proposto una riflessione sulla valenza dell’art. 2236 Cod. Civ, applicato alla responsabilità medica nel terzo millennio. Questa norma, rubricata “Responsabilità del prestatore d’opera” e formulata in termini generali, si applica in particolare a chi opera in ambito medico-sanitario, al fine di proteggere il professionista dalle ingiustificate rappresaglie del paziente. Nella sua formulazione letterale, essa afferma che il prestatore d’opera risponde solo per dolo o colpa grave, se la prestazione implica il dover risolvere problemi tecnici particolarmente complessi. “Che senso ha ridurre l’impegno richiesto al professionista?” si interroga il relatore. “Una prima interpretazione, riduttiva, si è data affermando che questa regola concerne solo i casi di imperizia e grave errore tecnico del medico. E’ solo un tassello di un complesso mosaico, tuttavia (…) Il fatto è che viene spontaneo chiedersi, oggi, se esistano ancora per davvero prestazioni difficili da eseguire in ambito sanitario, così che la norma pare potersi applicare solo in riferimento ad una ristretta cerchia di casi che portano in luce elementi nuovi, non ben conosciuti, e che possono quindi essere risolti solo da quei professionisti forti di una preparazione superiore alla media”. La difficoltà della prestazione è influenzata, in particolare, dalle capacità del medico e dalle sue dotazioni strumentali e non tutto ciò che rientra in una prestazione considerata difficile e di per sé tale. Il relatore ha poi evidenziato il principio pericoloso contenuto nella famosa sentenza della Corte di Cassazione n. 10743/2009. Essa ha infatti contravvenuto, nella sostanza, alle fondamentali regole sull’onere della prova previste dall’art. 2697 C.C. Normalmente, infatti, l’onere di provare il nesso causale tra la condotta del medico ed il danno subito spetta alla vittima. Nell’ambito della responsabilità medica, al contrario, il giudice di legittimità ha ammesso la possibilità di pronunciare un giudizio di condanna nei confronti del medico sulla base di un nesso di causalità presunto. In generale, cioè, se non è possibile affermare senza ombra di dubbio che il decesso del paziente sia conseguenza della negligenza del medico e se la cartella clinica risulta incompleta, il professionista dovrà considerarsi responsabile della morte del soggetto che aveva in cura, qualora la sua condotta sia risultata astrattamente idonea a comportare queste estreme conseguenze.
Ma l’incertezza è data anche dal fatto che si prospetta la possibilità di parcellizzare, scomporre, la prestazione medica in più sottoprestazioni da considerare ad una ad una, senza contare che questo ragionamento dovrebbe applicarsi tanto agli interventi di routine quanto alle operazioni chirurgiche più complesse. E’ la base logica per riferire il principio di causalità presunta anche a banali ingessature o interventi alle tonsille, dove il rischio di esito tragico dovrebbe essere scongiurato dalla buona preparazione del medico, sempre che non ricorrano complicanze impreviste. “Il nostro ordinamento giuridico non conosce presunzioni di questo tipo neppure all’art. 2050 C.C. –continua il relatore- e questo atteggiamento di eccessivo rigore potrebbe portare, da un lato, al collasso del sistema assicurativo sanitario e, dall’altro, a fenomeni eclatanti di medicina difensiva, cui siamo molto vicini perché sempre più spesso il medico si trova ad assumere le sue decisioni sulla base del timore di essere poi convenuto in un giudizio civile e penale. Senza contare il fatto che cresce il costo per curarsi a livello collettivo, non solo individuale”. Ecco quindi la necessità di un intervento del Legislatore, che in effetti si è avuto con la l. 189/2012, meglio conosciuta come Legge Balduzzi, di conversione dell’omonimo decreto, entrata in vigore lo scorso 11 novembre. Gli artt. 3 e 3-bis, in particolare, mirano a contrastare i fenomeni attinenti alla medicina difensiva. L’art. 3 ribadisce la specialità delle professioni sanitarie desunta dall’art. 2236 ma, a fronte di uno sterminato panorama di condotte riconducibili a “colpa grave”, dà maggior peso al fatto che il professionista abbia seguito i protocolli previsti, le guidelines prestabilite. Ciò escluderebbe in capo al medico anche la responsabilità per colpa lieve, sebbene tali linee-guida non eliminino la necessità che il medico analizzi le peculiarità concrete del caso.
Più problemi discendono dalla formulazione di questa norma, “più di quanti non se ne voglia risolvere” secondo Faccioli, sia in relazione all’art. 2236 che in riferimento ai danni patrimoniali, i quali vanno corrisposti a prescindere dalla valutazione della consapevolezza del medico di recare danno al paziente. In conclusione “Il legislatore merita un plauso per aver introdotto norme che cercano di risolvere problemi fondamentali –afferma- ma nel farlo dovrebbe concentrarsi maggiormente sulla loro qualità, anziché sulla quantità”.
A seguire; il professor Domenico De Leo, ordinario di medicina legale e direttore della scuola di specializzazione nello stesso ambito, ha presentato i risultati di un’ indagine epistemologica condotta dalla sua équipe in relazione alla percezione del ruolo del medico legale nella classe forense. La medicina legale, infatti, fornendo le conoscenze medico-biologiche per una corretta applicazione successiva delle norme giuridiche, ha dato un contributo tecnico decisivo per un gran numero di processi. Se, da un lato, il pericolo per il medico legale è quello di essere colpito dalla sindrome di Leonardo Da Vinci, credendo di potersi rendere indispensabile in ogni ambito del sapere, dall’altro egli è depositario di un sapere scientifico autorevole e prezioso, riconosciuto anche dai colleghi avvocati e magistrati. Ecco quindi che il 39% dei professionisti forensi, soprattutto i più anziani, considerano l’esame di medicina legale obbligatorio per una formazione armonica del giurista, mentre il 44% lo considera per lo meno obbligatorio in certi curricula specifici. Per quasi la metà degli avvocati, inoltre, il contributo di questa figura professionale è certamente indispensabile, perché ritorna di continuo nell’esercizio della professione. “Che tipo di professionista viene oggi richiesto alle nostre scuole di specializzazione?” continua De Leo “Certamente i futuri specialisti dovranno valutare i casi più diversi ed esprimersi sulle scelte mediche acquisendo competenze reali anche sul piano clinico. Al prof. Fiori va il merito di aver dato un contributo decisivo in tal senso”.
Ed in effetti Angelo Fiori, professore emerito di medicina legale all’Università del Sacro Cuore e al Campus biomedico di Roma, vede una carriera contraddistinta da studi nei più svariati ambiti della medicina e, naturalmente, da una ricca attività didattica. “Alla medicina legale ho dedicato molti anni della mia vita –esordisce- ma negli ultimi trent’anni devo dire che l’interesse verso questa disciplina è cresciuto in maniera esponenziale. Ad oggi l’Italia conta circa 400.000 medici e 52.000 odontoiatri, che debbono far fronte a un numero di malati molto rilevante. Il nostro Paese vede infatti 60 milioni di cittadini, quindi altrettanti potenziali malati. Non è difficile capire che si va verso una carenza di medici in Italia, in particolar modo a partire dal2018”. Eppure, lo Stato spende in media 110 miliardi l’anno per la sola sanità, senza tener conto della spesa previdenziale per chi opera nel settore. Inutile dire che le dimensioni della responsabilità medica ormai rappresentano anch’esse un costo significativo e, continua Fiori: “Rendono la classe professionale debole, a maggior ragione perché spesso essa non è pienamente cosciente delle conseguenze del proprio operato. Non si può negare che esistano fenomeni di cattiva sanità o corruzione, del resto esistono in ogni settore, ma il contenzioso civile e penale in quest’ambito ha ormai assunto i toni di una vera e propria malattia sociale”.
E’ quindi in un ambito già colpito che si aggiungono le recenti dichiarazioni di Mario Monti, il quale ha pronosticato un ulteriore peggioramento della situazione sanitaria nazionale a causa dell’aumento indiscriminato dei costi sanitari. “Eppure ci sono già ospedali nei quali da mesi non si paga lo stipendio al personale e, sebbene l’OMC fornisca un giudizio di eccellenza sulla sanità Italiana nelle zone più sviluppate, agli occhi dei cittadini l’immagine della medicina ne esce devastata”. L’associazione A.M.A.M.I, che riunisce i medici ingiustamente accusati, sottolinea che comunque quasi il 90% degli stessi viene infine assolto con formula piena in sede penale, eppure tutti questi medici attraversano un calvario che dura anni, complice la lentezza della giustizia italiana. “Poi, non si può certamente dimenticare che spesso la categoria medica risente della forte interferenza mediatica, oltre che dei tribunali, non appena si verifica un caso di sospetta malasanità, così come all’opposto si è troppo inclini a parlare dei successi sanitari in tono trionfalistico, quasi la medicina non conoscesse dei limiti”. La medicina moderna, esposta a continui attacchi su più fronti, si trova quindi in presenza di un bivio. Può scegliere di essere medicina dell’obbedienza, attenendosi alla mera osservanza della legge anche quando cure “non protocollari” potrebbero salvare la vita del paziente, oppure può intraprendere un cammino più arduo, mettendo i pazienti di fronte all’evidenza che complicanze imprevedibili possono pur sempre sopraggiungere e che l’essere umano è tutt’altro che indistruttibile.
Silvia Dal Maso