Nei primissimi giorni del giugno 1940, proprio mentre l’esercito francese operava l’ultima definitiva ritirata dopo lo sfondamento di Sedan, in una sera calda e tranquilla, un gruppo di quattro donne e cinque uomini sedeva sotto gli alberi di un giardino, a cento chilometri da Parigi. Si parlava appunto di Sedan, degli ultimi giorni che avevano restituito a questo nome, passato ormai di moda come la crinolina, il significato fatale di un tempo. Si parlava di quella città che, ovviamente, nessuno aveva visto: era morta all’epoca dei nostri antenati e ora resuscitava perché vi si ripetessero i tragici eventi che il destino aveva a lei sola riservato.
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Sono tre i racconti di questo piccolo libro di Nina Berberova. Tre storie che parlano di guerra e di emigrazione, ma anche di sentimenti e dinamiche umane. Una scrittura esposta alla storia che tratta la complessità dello spirito esplorando l’inconscio e gli istinti nascosti.
Nina Berberova riesce a far emergere l’immensità della solitudine dei suoi personaggi, immigrati che hanno perso tutto, ma non il loro animo, non la loro straordinaria memoria.
“Ed ecco che un nuovo mondo, molto più grande dell’altro, prese forma dentro di me, lì, fra quelle quattro pareti, un mondo in cui c’erano sempre l’oceano, la città, il cielo, le persone, che continuavano a passarmi accanto, la pioggia e il vento; ma in più, c’era il ricordo di un viaggio, del sole, di una cittadina italiana dove io e te avevamo vissuto non molto tempo prima, di una costa dai mille profumi, lungo la quale di sera passavano imbarcazioni piccole come giocattoli illuminate da lanterne, e un vapore rosa aleggiava sopra un vulcano vecchio come l’universo.”
La bellezza e l’intensità di queste pagine spiegano meglio di tanti saggi cosa significa emigrare, non trovare pace, interrogarsi sul senso della propria esistenza rifiutandosi di fare del proprio passato un rifugio in cui nascondersi e isolarsi.
“L’uomo continuava ad alzarsi tardi, a sedere alla finestra e a contemplare il cortile, gli alberi e il cielo. Il busto eretto e le mani poggiate sul davanzale, guardava e ascoltava con attenzione continua e sofferta gli uccelli, che rumorosamente si agitavano tra i cespugli di lillà, il lontano cannoneggiamento e il vociare dentro e fuori la casa. Una o due volte al giorno si alzava, prendeva in mano o indossava il suo cappello scolorito e troppo grande e usciva, facendo sbattere leggermente il cancello alle sue spalle. Camminava per il paese, osservava quanto accadeva, vedeva la gente divenire giorno dopo giorno sempre più inquieta, animosa e cattiva. La sera se ne stava a lungo seduto non più alla finestra, ma sulla soglia della dépendance, con gli occhi semichiusi e la mano sinistra poggiata sulla testa del vecchio cane, che veniva ad accucciarsi accanto a lui.”
Perché la sofferenza può trasformarsi in una risorsa preziosa com’è la letteratura, simbolo positivo di giustizia e cambiamento, “terra di nessuno” in cui vivere finalmente nella libertà e nel mistero.
Nina Berberova, La resurrezione di Mozart, traduzione di Gabriele Mazzitelli e Silvia Sichel, Guanda 2015.