Nelle ultime settimane molti osservatori, parlando di Sudtirolo, hanno notato che stiamo vivendo la fine di un’era. Siccome però un’era prende generalmente il nome dalla figura che è stata in grado di conferirle il suo marchio caratteristico, qui da noi la fine pare coincidere con l’estinguersi della stella di Luis Durnwalder e, parallelamente, dell’egemonia quasi priva di contrasti della Svp.
Ovviamente è bene intendersi su un punto. La fine di un’era non è di per sé qualcosa di positivo (o di negativo). Positività e negatività del cambiamento, di ogni cambiamento, possono essere stabilite soltanto se gli sviluppi inediti sapranno accentuare gli elementi virtuosi che il periodo precedente è in grado di trasferire all’avvenire e, parimenti, se avremo la possibilità e la capacità di correggerne i difetti. Il sospetto che una valutazione di questo tipo – sapere insomma in cosa consistono i pregi e le manchevolezze dell’epoca che ci stiamo lasciando alle spalle – risulti talvolta addirittura più incerta delle elucubrazioni sul successore del Landeshauptmann non rende purtroppo particolarmente serena la fase di passaggio.
Per quanto ci riguarda, vorremmo limitarci a segnalare, se non una serie di priorità, almeno il criterio a partire dal quale sarebbe bene trovare un accordo di massima tra tutti i principali attori sociali e le forze politiche impegnate nelle sfide che ci attendono. Una base comune che non vuol dire affatto una pasta indistinta in grado di confondere o abolire le differenze, dalle quali invece traiamo la nostra forza specifica, bensì una solida cornice in cui tali differenze acquistino maggiore legittimazione alla luce di regole condivise con convinzione perché formulate in modo da rispettare le peculiarità di ciascuno.
Risulta abbastanza paradossale, a tale proposito, che molte riflessioni spese sulla tenuta del nostro assetto autonomistico prescindano da quel che invece ne dovrebbe costituire il nucleo da incrementare, vale a dire il concetto e la pratica dell’“equilibrio”. Equilibrio interno, nel senso di un progressivo ridimensionamento delle disparità di accesso alle risorse e alle opportunità che in questa terra rischiano sempre di venir percepite con la lente atavica e prevaricatrice dell’etnocentrismo; ma anche equilibrio esterno, decostruendo la nefasta e illusoria tendenza a considerarci un’oasi di mirabili eccellenze da recintare con scelte strategiche improntate all’autosufficienza e alla separatezza. Del resto, uno dei dati più evidenti ricavati dalla fine dell’era Durnwalder, o come altro si voglia chiamarla, è che una simile presunzione non possiamo proprio più permettercela.
Corriere dell’Alto Adige, 19 dicembre 2012